Angela Scarparo
Chi critica i critici?

Il mancusianesimo

Ossia l'arte di lamentarsi della produzione culturale italiana presente, confrontandola solo con i classicissimi del passato o coi i mostri di Hollywood. Insomma, l'arte in cui eccelle una celebre notista del "Foglio"

Si aggirano, da un po’ di tempo, per le pagine della nostrana e cosiddetta informazione culturale italiana, dei mostri. Persone a due, a volte anche a a tre, quattro teste. Tante, a seconda dei portafogli da cui escono gli stipendi che percepiscono, o i complimenti che ricevono. Capaci contemporaneamente di lamentarsi di tutto e di niente. Di dire una cosa e l’esatto contrario. E la cui aspirazione massima altra non è, evidentemente, che quella di tenerti in uno stato di perenne avvilimento, se no, non si spiega.

Una di queste è Mariarosa Mancuso, la critica che dalle pagine de Il foglio ci dispensa quasi quotidianamente inenarrabili pippardocchioni in cui – parlo dell’ultimo letto da me, dedicato alla cultura del piagnisteo – mentre chiede di non lamentarsi, si lamenta dei lamenti. Ora, proprio per allergia a qualsiasi discorso che si limiti ad appiattire, e in cui non venga proposto un minimo orizzonte culturale possibile, mi permetto di intervenire nel merito.

La signora Mancuso, nel suo pezzo del 6 gennaio, riferendosi, se ho ben capito, a chi osa dire che il terreno cultuale in Europa è paludoso, oggi, a differenza che cento anni fa, e che non ci meritiamo Fabio Volo, parte da Dickens, poi si sofferma su Scorsese, passando per qualche altro grandissimo tipo Werner Herzog, Roman Polanski, Nabokov e altra robetta così, e finisce per dire che non ci dobbiamo lamentare, perché viviamo, se non nel migliore dei mondi possibili, semplicemente in un mondo in cui se le cose vanno male la colpa è solo nostra, «commentatori frenetici e suscettibili».

Posto che sono d’accordo, anche se mi sembra banale come argomentazione, sul dire che se studiamo e ci impegniamo un po’ di più tutti, e ci alziamo prima la mattina, le cose andranno meglio, invece di stare tutto il tempo a chattare, o a lamentarci, (cosa questa che vale per ogni campo), quello che contesto alla Mancuso è il metodo. È come se la signora, continuamente, prendendo a esempio il meglio del meglio del meglio, dicesse a noi, poveri tapini(e), «Ma cosa ne vuoi sapere – fare – tu, italiano (usa pochissimi esempi di autrici, artiste donne, la Mancuso, e secondo me non è un caso) di sinistra e chattatore?».

Quando si leggono i suoi pezzi è come stare nel film di Disney, Alice nel paese delle meraviglie. Un’esperienza allucinogena. Non solo perché ti fa saltabeccare, come dicevo più su, da un campo all’altro dell’umana esperienza, sempre poggiando il tallone, o la punta del piede, solo su ciò che di massimo ha prodotto, l’umanità, (divertimento che ci potrebbe pure stare), ma anche perché indicare come il top, solo opere che hanno almeno cinquanta anni di età, o che provengano quasi esclusivamente da Hollywood, non è così complicato.

Voglio dire: che Scorsese sia un bravo regista, o Dickens un grande scrittore, come Herzog o Polanski, o Nabokov, o Soderbergh, non c’è bisogno di dirlo. Lo sanno tutti. Vale la critica, se hai da aggiungere delle motivazioni, una nuova lettura, degli elementi in più, che servano a confermarci nell’idea che Dickens sia un grande scrittore o Scorsese un grande regista. E invece: Sorrentino e Virzì, in altre due recensioni (ormai note agli appassionati), trattati alla stregua di due macchiette, con il commento su Virzì, non così perspicace, (e che vale anche come consolazione), che «per fortuna sta per uscire il film di Scorsese!». Ma cosa c’entra?

Ora, e mi si scusi il passaggio, ma voglio fare un esempio.

A chi conosca minimamente la storia dell’arte, è chiaro il concetto che, a partire da un Michelangelo, o da un Leonardo o da un Raffaello, ci saranno poi innumerevoli autori, che pur non essendo il primo, né il secondo, né il terzo, lavoreranno poi “alla maniera di”. Autori che si chiameranno Garofalo, Mazzolino, Ortolano, autori tutti, noti solo a chi abbia voglia di dare uno sguardo più approfondito al panorama dell’epoca. Quello che voglio dire è che il concetto di manierismo è stato coniato proprio a partire dal momento in cui, nato il concetto di Grande Artista (che è un risultato culturale, e non un elemento che si dà in natura), andavano poi classificati tutti gli altri, o andavano date indicazioni a tutti gli altri su come lavorare. È da qui allora, dal “manierismo”, concetto presente già nel Quattrocento, ma elaborato da Giorgio Vasari (che non a caso viene considerato il primo storico dell’arte) che ci tocca partire, o a cui ci tocca tornare, per fare dei discorsi culturali seri? Ci potremmo provare. Se significasse porre un limite alle lamentele, ai mi piace, e ai non mi piace sparati a capocchia.

Che si parli di cinema, arte o letteratura. Qual è la tradizione cui si rifà il tale scrittore? Come lavora il tal altro regista? Come, e quali materiali usa il tale artista?  Quali sono i suoi punti di riferimento culturale? Queste sono le domande cui converrebbe dare una risposta. Cosa se ne fa un lettore, delle sparate che la signora Mariarosa Mancuso fa, tutte le mattine, buttando lì solo grandi nomi (Scorsese, Dickens, Dostoevskij, Nabokov!) quasi, a caso?

Niente. Chi è troppo giovane neanche la leggerà, perché non conosce, o conosce male, gli autori di cui la critica parla, e chi è in là con gli anni verrà confortato che siamo nel peggiore dei mondi possibili (o nel migliore, cose entrambe non vere), o sarà invitato a disinteressarsi alla cultura in generale, pensando di trovarsi (lui tapino!) davanti all’ennesima Kasta, di quelli che fanno «produzione culturale».

Dire invece – e mi sto riferendo non a caso alle opere di Virzì e di Sorrentino – da quali tradizioni provengano certi film, in quali modi siano costruiti, fare cioè un’analisi di ciò che l’autore voleva dire – e magari non è riuscito a dire – di come l’ha detto, è un tipo di operazione che sarà utile a chi legge. Prendiamo Sorrentino. È stato notato che è un omaggio Fellini. Invece di gridare «Per carità, Flaiano sì che era un gigante!», leggere fra le inquadrature del film, e attraverso ciò che il regista mette in scena, gli attori che sceglie, il modo in cui li fa recitare, i dialoghi, quale è la “maniera” di Sorrentino, è un’operazione che a me, lettrice, serve. Il resto non mi interessa.

Anche perché, e me ne scuso, la Mancuso non è esattamente una F.R. Leavis. Sto parlando di un critico inglese, che qualche anno fa, ha scritto La Grande Tradizione, un libro importante in cui lo studioso distrugge scrittori come Thomas Hardy o Virginia Woolf, per dire, attraverso una lettura serrata di Jane Austen, Eliot, Conrad e un paio di altri, (autori che lui identifica nei cinque grandi da cui tutto ebbe inizio, per ciò che riguarda la moderna letteratura inglese).

Che cosa voglio dire con questo? Che scrivere dei pezzi, su giornali dichiaratamente di parte, in cui ci si limiti a insultare chiunque non appartenga alla propria parte politica, è, secondo me, esercizio da pollaio. In quanto tale, inutile e anche dannoso, questo sì. Perché non dà, a chi legge, elementi per capire, e costringe tutti e tutte a un inutile e dannoso gioco della parti. Da qui, un ultimo invito, che esprimerò con una domanda: che cosa piace a Mariarosa Mancuso?

Chiedo di fare un elenco di cose che non siano già state consacrate – e non da oggi – come grandi, o che non siano state prodotte a Hollywood. Altrimenti sarò costretta a fare – e qui, sì, davvero si chiama così – una lamentela, che è questa, che è banale, ma è anche questa vera: «In Italia, più che in altri paesi, la cultura di destra non esiste, non è mai esistita. E allora cosa fanno i destri? Si limitano a dire che tutto ciò che è fatto da intellettuali della parte opposta fa schifo!». Banalità per banalità, vediamo di smetterla con questo ping-pong.

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