Gianni Cerasuolo
Cartolina da Bologna

I girasoli di Abbado

Una giornata a Piazza S. Stefano per i funerali del maestro in mezzo a un'Italia che sembra aver dimenticato l'arte e la cultura. E anche quegli uomini che ci fanno vergognare un po' meno di essere italiani...

C’è il sole a Bologna, mercoledì 22 gennaio intorno a mezzogiorno. All’imbocco di via Santo Stefano un giovane con una barbetta risorgimentale e una bici rossa avverte la ragazza: «L’appuntamento è alle 13 e 45 in chiesa. Sappi che se non vieni, non saluti il più grande maestro del ’900…». Lei risponde con un poco convinto «va bene» e poi lo bacia ma si capisce che non ci andrà. Percorro la strada stretta e penso al fiume di gente che mi troverò davanti tra qualche istante; avevo visto i servizi dei telegiornali del giorno prima, avevo osservato le foto su giornali e sul web, Napolitano con Alessandra, la figlia del maestro, e poi tante persone in fila silenziosa e composta. All’improvviso la stradina si slabbra in una piazza, sullo sfondo un complesso di chiese e campanili, mattoni rossici, tre quattro pini attorno come carabinieri in alta uniforme. La chiesa centrale, detta del Crocifisso, ha un balcone originalissimo sulla sinistra della facciata: mi sono immaginato un direttore con la sua bacchetta lassù e un’orchestra sotto a riempire tutta la piazza. Ma non poteva essere lui.

Sono venuto a Bologna da Roma a salutare il maestro Abbado, un po’ portato dal cuore e dall’emozione, un po’ sentendomi a disagio di fronte al dolore altrui, imbarazzato di sembrare come uno di quelli che corrono dovunque ci sia da applaudire una bara che esce da una chiesa, da un edificio. Sono le occasioni che fanno scrivere ai giornali: «In migliaia alla camera ardente, al funerale …». È il titolo più facile da fare anche se non è sempre vero quello che dice. Ma si fa di mestiere, ci sono altri articoli da titolare e bisogna chiudere il giornale.

i funerali di abbadoQui non ci sono folle. È una Piazza Grande al contrario. Mi metto a contare: il corridoio di transenne è formato da 16 pezzi da un lato e da 16 pezzi dall’altro; il maestro riposa in un tempio laterale, la Basilica dei santi Vitale e Agricola, sulla sinistra se si guarda il complesso dell’Abbazia di Santo Stefano, Sancta Jerusalem Bononiensis, perché anche qui c’è un sepolcro, quello di San Petronio, conosciuto semplicemente come le Sette Chiese, le chiese più antiche della città. Ho contato una ventina di persone in fondo al corridoio di transenne; e più tardi altre venti, e più tardi ancora altre venti. Non c’è mai il vuoto tra quei due filari di ferro. La gente arriva fino alla quinta/sesta transenna. Qualche volta il serpentello si allunga, qualche volta si accorcia. È così fino alle 15. Non c’è la gente del pomeriggio e della serata di martedì. Molti riflettono ad alta voce: «Stamattina ne aspettavamo di più». Io mi chiedo, ingenuo: dove sono gli italiani? Provo a giustificarli: la gente è al lavoro. Anzi è in pausa-pranzo, come si dice a metà giornata. Entro nel piccolo gruppo, si aspetta che il sevizio d’ordine, giovani  gentili e discreti, faccia passare: non fate foto, spegnete i cellulari. C’è poco da attendere nella piazzetta con un acciottolato sporgente. Senti una babele di linguaggi, inglese ma anche tedesco e giapponese. Una guida rossa per terra conduce dentro la chiesa, fuori due registri pieni di annotazioni, rileggo un pensiero amaro che dice: «Non abbiamo più pezzi di ricambio …» ma non è originale, era apparso già su twitter. Tutto è semplice e scarno qui, la bara di legno chiaro, le dimensioni del luogo, quasi un sacello a tre navate, un posto nudo come lo sono i templi romanico lombardi, poche colonne e qualche capitello di stili diversi. Attorno alla bara, cinque piante di girasoli, cinque sedie e cinque leggii per gli spartiti. C’è una colonna sonora, Mozart, Beethoven, Bruckner e altri ancora. Dentro si sta tutto il tempo che si vuole, nessuno ti mette fretta. Nella navata di destra, qualche familiare abbraccia altri parenti, amici, giovani musicisti. Ogni tanto scorgi questi ragazzi che aspettano di entrare,  hanno con sé lo strumento, sulla custodia grigia di un violoncello sono state appiccicate due “G” come una firma. Una donna ha il suo violino, è bionda ed esile, dietro gli occhialoni neri devono esserci delle lacrime. Forse si poteva organizzare un concerto nella piazza. Forse no. Gli strumenti della “Mozart” hanno suonato nella notte nella minuscola basilica prima dell’ultimo saluto e della cremazione. Daniele, uno dei figli di Abbado, ha ringraziato i bolognesi per il rispetto che hanno avuto.

Dunque, inutile continuare a pensare che là dentro ci sia una rockstar, un calciatore, un attore (di fiction, s’intende, mica di teatro o di cinema, chi vuoi che li conosca?). Ma stai sbagliando a misurare il piccolo ma incessante pellegrinaggio con il metro. L’addio a questo grande personaggio rispecchia la sua vita, la sua sobrietà, il suo stile rigoroso. Non si possono guardare le cose sempre con le lenti del chiasso romano. La gente non è qui ma magari ascolta i suoi concerti, mi sto convincendo. Non ero in Piazza Grande per Lucio Dalla, piazza Maggiore è a pochi passi da qui ed è successo solo due anni fa, ma ero a Genova quindici anni fa, quando davvero in molti salutammo Fabrizio De Andrè, anche allora era gennaio e Paolo Villaggio scrisse poi che «per la prima volta aveva avuto invidia di un funerale, da me non verranno in tanti». Ma Dalla e De Andrè erano diversi da Abbado, erano poeti e popolari. Qui tra quei girasoli c’è un altro poeta, solitario e dispensatore di emozioni raffinate, cittadino del mondo, lontano dalle cronache di un Paese incattivito e ipocrita, molto ignorante, un Paese che piange e si dispera ma dimentica in fretta: ha ragione Saviano. Stefano Bonaga, il docente universitario, ex assessore, ha puntato l’indice contro Bologna: «Questa è una città immersa nella mediocrità da sempre. Abbado ce lo siamo trovati per dieci anni a Bologna e la gente non sapeva nemmeno dove abitasse. È stato una persona straordinaria a cui andava grattato via tutto, respirandolo. Ora ci sono le classiche lacrime di coccodrillo. Non voglio accusare nessuno ma solo testimoniare la tristezza di questa città rispetto alla bellezza di quest’uomo» si è sfogato con il Carlino. Lo scorgo seduto al Caffè delle Sette Chiese, attorno dei giovani giapponesi mentre una donna, lontano dai tavolini, fa una foto e dice, cinica: «Alla tv hanno fatto una ripresa come se qui ci fosse stato il mondo intero, lo vede anche lei che non c’è nessuno. E poi scusi, non era di Milano, il maestro…?». Qualche cronaca locale ha fatto notare al sindaco come Milano avesse proclamato il lutto cittadino e Bologna no. Nel pomeriggio di mercoledì Virginio Merola ha messo una toppa mettendo le bandiere a mezz’asta il giorno dopo.

Sono le ore 14, guardo ancora il corridoio di transenne e non posso fare a meno di contare: il flusso è invariato, nonostante l’ora difficile. Prima c’era stato un agitarsi di fotografi e di telecamere, ma era Prodi che passava con un diplomatico africano. Prima ancora era venuta il ministro Cancellieri. Un signore sotto i portici a quel punto ha notato: «Quando la bara è uscita da lì – e indica il numero 16 della piazza dove abita la famiglia Abbado nell’antico Palazzo Isolani ai lati dell’Abbazia – non si è levato un solo applauso, lui l’avrebbe meritato, ma visto che è diventata un’abitudine, sono contento che sia andata così» commenta quasi disapprovando quel muoversi concitato dei cronisti. Nella piccola chiesa dell’addio adocchio il ragazzo dell’appuntamento delle 13,45: è solo, la ragazza non è venuta. Uscendo, su un muro adiacente il complesso delle Sette Chiese, nella Via Santa, qualcuno ha scritto con il gesso: mañana no serà otro dia mas.

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