Giuliano Compagno
Dopo il premio a Sorrentino

Estetica del dandismo

Il Golden Globe ci fornisce l'occasione per tornare a parlare de "La grande bellezza" e della sua capacità di inquadrare un rovello intellettuale che non è solo mondano

Nessun riconoscimento di prestigio riuscirà a dissolvere il nebbione di luoghi comuni che, sin dalla prima uscita, ha avvolto La grande bellezza. Elencarli tutti sarebbe un’impresa vana, per cui ci accontentiamo di un parziale elenco: il film fallisce proprio nella sua felliniana iconografia perché non basta una giraffa per emulare la magia del Maestro; quella Roma di cinquant’anni fa non esiste più; tutto si regge grazie alla bravura del protagonista; per carità, bella la fotografia ma la città appare morta (che strano… «Roma è un cimitero che scoppia di vita» lo disse proprio Fellini!); i personaggi sono grotteschi, inverosimili; la trama è slegata, o addirittura non esiste; su tutto aleggia un moralismo vuoto e retorico; l’opera è costruita a tavolino, da essa non emana alcunché di autentico; il farsi beffe della mondanità appare come un vuoto esercizio di stile. Con tutto ciò sorvolando sugli insulti e sui giochi di parole da bar.

Parliamo di una tendenza e non delle sue ragionate eccezioni, tuttavia, con questo schieramento in armi si è presto avvertita la sensazione che non fosse utile avviare un libero dialogo. Le cosiddette stroncature affondavano in un terriccio sin troppo lavorato, così restituendo ai lettori e agli interlocutori delle ennesime riproduzioni di pensiero. Sicché, proprio chi usciva dalla sala sperando che l’amico non gli evocasse la scontatezza più temuta, era costretto ad ascoltare il «più che sentito» rimando a una visionarietà, in questo caso mancata. Insomma c’era poco o nulla da obiettare, il tutto senza tener conto delle piccinerie private, tipiche di artisti o di intellettuali falliti, a cui facebook e twitter vanno garantendo le misure alternative o i domiciliari.

Mettici pure che Sorrentino è un quarantenne… «Vorrà mica insegnarci qualcosa?». Sia mai che un napoletano venga a spiegare la profana sacralità di Roma? I suoi riti senza miti? Peccato, perché i primi suoi film, quelli sì che mi piacevano (il mondo è anche pieno di stolti che dichiarano di amare solo il primo Allen, ma da Manhattan in poi, per carità!)…

Che pazienza! Del resto La grande bellezza riesce dove i detrattori smarriscono definitivamente la strada del concetto e si avventurano in territori a loro sconosciuti, il che accade quando accennano al tema della mondanità. Le ambizioni di Sorrentino e di Contarello, a loro non sommesso avviso, sarebbero naufragate nel tentativo di rappresentare una mondanità che, o non esiste più, o non c’è mai stata, o risulta troppo bassa al confronto con le nobili corti affrescate da Fellini e da Scola nelle città e nelle dimore di una coscienza ormai perduta.

Ebbene, l’idea un po’ banale che attraverso l’opera si volesse inscenare il bel mondo contemporaneo, o ancor peggio inquadrarlo in una realtà verosimile, tradisce una carenza di riferimenti che nel film vengono addirittura citati. Infatti La grande bellezza non descrive la vacuità della mondanità (che tale è, tra parentesi), bensì racconta dell’aperto contrasto che il dandy pone in essere al fine di intercettare e annullare i meccanismi del sistema mondano. «Quando sono arrivato a Roma 26 anni fa – ricorda Jepp Gambardella – sono precipitato abbastanza presto, quasi senza rendermene conto, in quello che si potrebbe definire il vortice della mondanità. Ma io non volevo essere, semplicemente, un mondano. Volevo essere il re dei mondani. Io non volevo solo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire». Il brano è nei trailer, lo conoscono tutti. Non è affatto un caso che questa originaria intenzione del protagonista sia stata ripresa, se non letteralmente quasi, dal magnifico pamphlet che Georges Barbey D’Aurevilly, scrittore di immensa raffinatezza, dedicò al Beau Brummell nel 1845 (Du Dandysme et de George Brummell). E, fidatevi, questa non è roba da topi di biblioteca, il libriccino conobbe la sua italica stagione di gloria agli inizi degli anni Ottanta grazie alla superba traduzione di Alba Pellegrino Ceccarelli e al fiuto editoriale di Elvira Sellerio. «Dal 1799 fin verso il 1814 non ci fu a Londra ricevimento o festa in cui la presenza del gran dandy non fosse considerata come un trionfo, o la sua assenza come una catastrofe».

Così appare culturalmente un dramma che oggi la definizione di dandy venga sprecata a destra e a manca con sospetta generosità, il che accade perché il dandismo risulta un fenomeno del tutto incompreso. Qualche sprovveduto ha liquidato Gambardella come artista “fallito”, prendendo per manifesta debolezza il suo ritrarsi dall’agone letterario-salottifero. Ora, passi che storicamente, per legittima ignoranza, il dandy sia stato malinteso quale regnante della mondanità, tanto da concedere certificati falsi agli elegantoni (Valentino) o ai potentissimi di turno (Gianni Agnelli). In realtà le doti del personaggio perfettamente immaginario di Gambardella sono tutte altre e il suo dandismo è correttamente espresso dalle sue attitudini più naturali: «Possedeva la grazia quale la concede il cielo e come, spesso, la falsano i comportamenti sociali», magnificavano di Brummell. E da tale grazia discendono il gesto e il carattere che Servillo ha saputo incarnare alla perfezione. Ma un grande attore non combina nulla di buono se non c’è un’idea prima di lui! E da questa idea è stata resa una sorta di misurata audacia, l’impassibilità, l’incanto immateriale all’atto di apparire, una certa sapienza nel dominare ogni passione, il riuscire a ergersi come una figura di autocrate capace di prescindere dall’opinione pubblica; e ancora, l’indipendenza di giudizio, l’eleganza non affettata qualunque capo indossi, il privilegiare lo stupore rispetto al piacere, in una parola la inimitabilità del dandy.

Che egli si trovi nel Regno Unito di Giorgio IV o nella volgarissima Italietta di oggi, non ha alcuna importanza; il non-so-che di Jepp Gambardella calzerà come un guanto nelle pose e nei gesti di George Bryan Brummell. Quel che contava era narrare una forma di opposizione concreta alla mondanità “dominante”, all’essere “donna madre e scrittrice” di una delle tante a cui non si era mai detto in faccia del suo triplo fallimento, all’artisteggiare a mo‘ di pura fuffa della performativa che nemmeno sa dove stiano di casa l’arte e se medesima. Soltanto una squadra italiana di talento poteva riuscire in una impresa del genere, e alcuni italiani, con molta semplicità, sono fieri del loro Golden Globe.

Ai detrattori di professione e/o disoccupati non chiederemo di uscire dal coro. Siamo contenti delle loro certezze.  Buon per loro credere che, non fosse Jepp a vendicarci del nulla mondano, verranno comunque a salvarli, nell’ordine, i critici della sinistra giusta, il “grande racconto” del cinema italiano contemporaneo, quelli a cui basta recitare Fantozzi e infine gli snob, i sine nobilitate che da Capalbio al Billionaire, sono vent’anni che si annoiano a morte. E sono vent’anni che noi andiamo in vacanza altrove.

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