Leone Piccioni
Dubbi e conversioni

Manzoni, Pomilio e il Natale del 1833

L'accettazione del dolore come vera prova di Fede. Ne fece esperienza l'autore dei “Promessi Sposi” quando sua moglie, Enrichetta Blondel, morì in un fatidico 25 dicembre. Un evento riletto dallo scrittore abruzzese in un bellissimo romanzo...

Negli Inni sacri Alessandro Manzoni aveva composto un Natale nel 1813 («Qual masso che dal vertice…») ma nel 1833 troviamo un altro, davvero un altro, Natale. Proprio in quel giorno Manzoni perse, ancora giovane, la moglie Enrichetta Blondel. Ed ecco un drammatico, ai limiti della disperazione, se non fosse per la risoluzione finale, Natale.

Cecidere manus: cade la mano più che stanca tragicamente turbata, persuasa di aver sollevato con quel «terribile» il problema sempre irrisolto dell’accettazione del dolore come vera riprova della Fede certa. Quando il dolore d’improvviso ti colpisce, duramente ti scuote e ti offende, rimette in moto ogni impeto di ribellione, raro che ti consoli la pur lunga consuetudine con il pensiero e la pratica religiosa. Eppure la Fede trova la sua fondamentale sostanza vitale nel rapporto costitutivo con il dolore. Quante volte Manzoni si sarà posto questo tema! Eppure nella Fede il dolore apre la possibilità del riscatto nella speranza (la solidarietà, la memoria, l’amore che rinasce, nuclei dispersi che nel dolore si riformano e vivono). Ma quando la “folgore” ti colpisce d’improvviso, non nei pensieri generali, ma nella carne viva, non vale più la concezione totale della vita che pure hai nella mente e nel cuore: ha il sopravvento un moto di ribellione, di rifiuto. E il dolce Gesù Bambino del tradizionale Presepio – come quello del ’13 – si fa nelle prime due strofe «terribile», si fa «severo», detta legge, impugna subito la folgore come un Giove adulto e consumato e la scaglia a suo piacimento come se il tempo della carità e dell’amore non fosse mai giunto. Ma è Bambino anche in questo atto di imperscrutabile giustizia perché subito si avvierà lui stesso verso l’esperienza straziante della carne nel dolore che non risparmia, trascinando con sé la Madre, figura dolcissima che «ti vedrà morir». E in questa possibilità di ripartire insieme il dolore collegandolo alle esperienze della Croce e della Madre che sale il Calvario, Manzoni sospende il suo canto quasi avesse toccato il punto vero e profondo e, dolorosamente contemplando rinuncia, cade la penna cecidere manus.

pomilioQuando scrissi questa paginetta nel ’64 per una specie di diario sentimentale, pubblicandola poi in un mio libro di saggi, non pensavo certo che mi sarei incontrato tanti anni dopo con il libro bellissimo di Mario Pomilio Il Natale del 1833 (Rusconi 1983). Si può capire perciò con quale interesse, con quale partecipazione ascoltai dalla viva voce di Pomilio il progetto di quel Natale del 1833. Il romanzo venne presto nelle nostre mani e manteneva tutto quello che aveva potuto promettere: il dolore che si fa dolore di tutti. Il romanzo si centra su due personaggi, Manzoni e la madre Giulia Beccaria, che è un po’ la testimone di quegli anni nei quali Manzoni passa attraverso la più grande esperienza del dolore. Manzoni è visto da Pomilio quasi sempre di scorcio attraverso le parole della madre colte da un epistolario con un’amica che è la spina dorsale del romanzo e che è tutto inventato dal narratore come se la stessa madre non avesse il coraggio di affrontarlo, di farlo parlare: con uno sguardo perso, un inginocchiatoio sotto una Maternità, Manzoni si raccoglie talvolta in preghiera, con un gesto delle mani che si strofinano gli occhi come ad allontanare un lacrima. Del resto a conclusione del romanzo e dopo che Manzoni sarà stato colpito a ridosso del primo lutto dalla perdita della figlia andata sposa a Massimo D’Azeglio, e nel ’41 dalla morte dell’altra figlia Cristina, la terzogenita, Pomilio mette in bocca a Manzoni queste conclusive parole: «Ma perché ho detto che la storia delle vittime è la storia stessa di Dio? Ma perché ogni qualvolta un innocente è chiamato a soffrire egli recita la Passione? Che dico recitare? Egli è la Passione nel senso che è Dio stesso a crocifiggersi con lui… E la verità è questa, semplicemente: la Croce di Dio ha voluto essere il dolore di ciascuno e il dolore di ciascuno è la Croce di Dio».

Quanti segreti camminamenti dell’anima e della mente! Pomilio ce li racconta tutti frugando in ogni spazio e dando pretesti alla sua immaginazione, alla sua fantasia pur rispettosissime del contesto nel quale si muove. E a Pomilio balena l’idea di scrivere un romanzo o un abbozzo di romanzo su Giobbe, il più enigmatico degli uomini colpiti dal dolore e disposto alla accettazione dello stesso. Quel Giobbe che secondo Jung mise una volta per sempre in crisi il Dio del Vecchio Testamento e rese necessaria la venuta del Cristo ad annunciare pietà per le creature umane. E c’è anche il ricordo della Colonna infame: da una vicenda privata a una sorta di pubblica vicenda. Non c’è solo “dolore privato”; c’è, sparso a piene mani nel mondo, “dolore pubblico”. Pomilio non dà risposte; controlla la reazione dei personaggi, il loro smarrirsi, riprendersi, ricadere in un impasto di straordinaria sapienza. E su tutte le pagine (né passa dalla mente) la figura stanca, affilata, credibilissima del grande e vero protagonista: il Manzoni.

 

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Ma di Pomilio, grande narratore del Novecento, al quale io ritorno dopo molti anni, mentre in questi molti anni è stato un po’ dimenticato ingiustamente, si dovrà dire qualcosa d’altro. Ricordare il suo primo libro del ’54 L’uccello nella cupola, il famoso Quinto Evangelio del ’75, Gli scritti cristiani del ’79. E ricollegandosi a quest’ultimo libro rivedere la Lettera a una suora. Nel ’53 Pomilio e la moglie si trasferiscono dall’Abruzzo a Roma, si sentono soli, malinconici: «Avevamo lasciato quella specie di nido caldo che erano le nostre famiglie e andavamo carichi di nostalgie stentando ad ambientarci». In gioventù Pomilio era cresciuto in un ambiente cattolico con una certa lontananza e diffidenza. Militava nel dopoguerra in partiti di sinistra a forte impronta laica. Ma la moglie fu colpita da una grave malattia che richiedeva d’urgenza un intervento chirurgico e nella clinica i due conoscono la suora. «Pronta a sorriderci, a rincuorarci… Ci abituammo presto ad aspettarla. Arrivava lieve e rapida e subito si dedicava amorevole, sollecita, misteriosamente percettiva alle necessità di mia moglie che parlò di lei come di un angelo». E Pomilio si chiede il perché di tutto questo, il perché di tanta carità, il perché di tanta gioia nella carità e tanta forza d’animo e tanta umiltà.

Di fronte alla suora Pomilio non può subito parlare di conversione ma il rapporto con la suora secondo lui lo fa nascere all’indomani come scrittore. «Divenne un viaggio d’esplorazione all’interno di me stesso, nel corso del quale mi scoprii impensatamente ricco di mille cose che non sapevo di possedere, di risonanze e di versanti problematici tipicamente religiosi e perfino d’una cultura religiosa che ignoravo d’avere… Il mutamento che ne era derivato aveva avuto la sua prima origine dall’incontro con la suora, che mostrandomi in concreto che cos’è la carità cristiana e quale tesoro di valori essa contiene avevano sconvolto in me la visuale che avevo del cristianesimo… In breve, per opera sua, erano venuti in luce di me, l’io profondo e lo scrittore insieme».

 

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