Andrea Carraro
Ancora a proposito degli "Sdraiati"

L’arte di invecchiare

Al di là dell'apologo (lucido e amaro) su vecchi e giovani, nel nuovo libro di Michele Serra c'è un cuore tematico-narrativo che riguarda più i padri che i figli: la difficoltà di accettare il tempo che svanisce

Leggendo il libro di Michele Serra Gli sdraiati (Feltrinelli, 112 pagine, 12 Euro) – in questa storica giornata, mentre Silvio Berlusconi veniva espulso dal Senato e ci si sentiva, forse abusivamente, un poco migliori – ci chiedevamo un po’ di cose, divisi fra adesione e dubbio. Cerchiamo di mettere a fuoco l’una e l’altro. Dunque, Michele Serra è bravo, noi siamo grandi estimatori delle sue “Amache” e dei suoi editoriali; scrive bene, ha una prosa ariosa, ricca e precisa, è un abilissimo argomentatore, ha il dono della sintesi. In questo libro, un monologo in forma di lettera rivolto al figlio, la sua idea del mondo – dei giovani, dei vecchi – è disincantata quanto ahimé perlopiù condivisibile. Il libro è un utile strumento per interpretare correttamente (senza pericolo di vedersi contraddetti) il presente, armati, come l’autore, di un sano “relativismo etico” e di un laico buon senso.

E però ha ragione anche Filippo La Porta che, accomunando quello di Serra al nuovo libro di Francesco Piccolo, sul supplemento culturale del Sole 24 ore, vi legge una tendenza “auto-assolutoria” e una sostanziale incapacità di rappresentare il “tragico”. «Qual è la tonalità che accomuna i due libri – si chiede il critico – lo “stile”, che sia pure in modi diversi, esemplificano e che a me pare oggi quello vincente? Patrioti di una sinistra evoluta (dunque aprioristicamente schierati dalla parte giusta) e uomini di mondo (pronti ad assolvere chiunque in nome della complessità), disposti a indignarsi ma anche generosamente indulgenti…». La letteratura – continuavamo a ragionare – non deve confermare chi legge nelle sue pur ragionevoli convinzioni morali, sociali, estetiche ecc. Deve invece porre interrogativi, mettere a confronto, “connettere” varie e diverse anime, offrire sintesi sì, ma solo sul piano poetico-espressivo. Insomma, riflettevamo su queste antitetiche e controverse questioni. E abbiamo continuato a farlo testardamente per tre quarti di libro, nel quale Serra racconta, rapsodicamente, senza un vero centro, fra una vendemmia sulle coline del Nebbiolo e una coda a un negozio di felpe griffate, l’estraneità fra la sua generazione (la nostra) e quella dei nostri figli (gli “sdraiati” del titolo appunto, sempre stravaccati sui divani, connessi con telefonini e apparecchi vari, tragicamente indifferenti a tutto, indolenti, massificati e omologati in un consumo stolido e ininterrotto).

gli sdraiatiLo racconta con il suo stile, con il suo acume e il suo senso dell’humour (fitto iperboli e paradossi), costruendo il ritratto di due personaggi credibili e molto tipici dei nostri tempi. Come per esempio in queste ispiratissime righe: «Il tuo profilo, ormai al valico dell’età adulta, mi sembra esitante, come se il bambino che sei stato lo reclamasse ancora per sé. Lo stravacco scomposto del tuo corpo perde evidenza rispetto al tuo viso intatto, ai suoi tratti puliti. Il respiro è leggero, la fronte sgombera, le palpebre lisce e integre come un libro mai aperto. Ho la nitida sensazione che questo – esattamente questo – sia l’ultimo istante della tua infanzia». Quel che cerca Serra nel figlio, è l’innocenza che va perdendo giorno dopo giorno. Ah, com’era facile amarti quando eri piccolo!, ragiona il narratore, e quanto diventa sempre più difficile via via che diventi adulto, che ti emancipi da me… Ora, questo sentimento straziante (che appartiene tuttavia a qualunque epoca, a qualunque generazione, e ha a che fare con quello della morte) è il cuore vero del libro, molto più delle allegoriche pagine sulla Grande Guerra Finale fra Giovani e Vecchi (che ricordano Benni), dove l’esercito dei Vecchi, capeggiato da Brenno Alzheimer, alle fine depone le armi  perché «è la vita che deve vincere la guerra».

La parte migliore del libro è probabilmente la fine (che anche la più “narrativa” nella lingua), quella della gita in montagna con il figlio, più volte annunciata nel corso del libro a mo’ di tormentone, che finalmente si compie con immensa soddisfazione del narratore. Il figlio lo segue per gli aspri sentieri verso il mitico Colle della Nasca situato a 2700 metri, dove c’è solo ardesia e cielo («il posto più bello del mondo!), che il narratore ha conosciuto a sua volta grazie al proprio padre. Il ragazzo, vestito intenzionalmente in modo inadatto alla circostanza (con le stesse scarpe sformate che usa in qualunque occasione) lo segue dapprima sminchionato, poi via via più partecipe… Finché a un certo punto il narratore si accorge che lo ha addirittura superato e avanza gagliardo per conto suo verso la cima. «Sei salito in pochi passi fino al colle. Quando la tua sagoma è arrivata a stagliarsi contro il cielo, al colmo, ti sei voltato. Hai levato il berretto da rapper e l’hai sventolato verso di me. (…) Finalmente potevo diventare vecchio».

Clicca qui per leggere l’intervento di Pier Mario Fasanotti sullo stesso libro

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