Valentina Mezzacappa
Il capolavoro di Mary Shelley in scena

Frankenstein (e papà)

Convince solo a metà la versione teatrale (vista grazie alla ripresa video) del “Frankenstein” del National Theatre con Benedict Cumberbatch e Jonny Lee Miller. Una grande regia (Danny Boyle) per una drammaturgia zoppa (Nick Dear)

Finalmente ci siamo riusciti. Abbiamo visto la trasposizione teatrale del celebre romanzo di Mary Shelley, Frankenstein. L’abbiamo vista alla multisala della Bufalotta di Roma grazie alla registrazione effettuata dal National Theatre, struttura che quest’anno compie cinquanta anni con all’attivo ben 800 produzioni teatrali di grande successo e indiscussa qualità. C’è da dire che per un pelo rischiavamo quasi di perderla in quanto la Nexo Digital, la società incaricata della distribuzione ha un modo curioso di pubblicizzare i suoi eventi, rendendo note le date delle proiezioni solo pochi giorni prima l’evento.

Forse anche per questo, la sala non è gremita, anzi. Gli spettatori saranno stati più o meno una quarantina e ascoltando nel buio i loro commenti mentre sullo schermo si avvicendano i diversi trailer è emersa l’eterogeneità del gruppo. C’erano persone di nazionalità inglese, fan della serie televisiva della BBC, Sherlock, amanti del teatro e ragazze invaghite di uno dei protagonisti, l’attore in ascesa Benedict Cumberbatch (sono state tradite dalle continue risatine) che insieme a Jonny Lee Miller veste a turno sia il ruolo della creatura sia quello di Victor Frankenstein. Nella versione che abbiamo visto noi Cumberbatch vestiva i panni del mostro e Miller quelli dello scienziato.

La regia è di Danny Boyle (Trainspotting, Slumdog Millionaire e 127 Hours) mentre l’adattamento è firmato da Nick Dear (Power, The Villains’ Opera, Persuasion, Poirot). Prima di procedere con un’attenta dissezione dello spettacolo è più che doveroso dire che nel suo insieme il Frankestein di Danny Boyle è una produzione di alta qualità, che avvolge, rapisce, commuove e lascia spesso senza parole per il suo ritmo, l’ingegnoso utilizzo dello spazio tecnico, il lavoro effettuato dalla regia, dagli attori, dal light designer e il responsabile del movimento. Non si può fare di certo a meno di notare quanto sia stato profondo e dettagliato il dialogo fra i diversi reparti che hanno reso possibile la genesi dello spettacolo.

Purtroppo, e ci dispiace dirlo, l’adattamento di Dear non è all’altezza né del romanzo né del lavoro impostato da Boyle. Dear scarnifica fino all’estremo l’opera e finisce con imbastardirla, scegliendo di far ruotare l’intera vicenda attorno al tema della paternità mancata di Victor e alla lacerante sensazione di abbandono con conseguente abbrutimento della creatura. I grandi quesiti scientifici e filosofici posti dalla Shelley non trovano alcun collocamento nell’adattamento teatrale, o meglio, vengono affrontati ma in maniera così grossolana da rendere il personaggio di Victor prevedibile e bidimensionale. Il Victor di Dear è un uomo socialmente incapace come ogni scienziato pazzo che si rispetti, avendo nella sua vita posto solo per la scienza. Abbandona la sua creatura in preda al terrore quando si rende conto che è viva ma quando la incontra nuovamente più in là nella storia vedendo il grado di emancipazione da essa raggiunto ne è nuovamente affascinato e rapito. Nell’adattamento figurano anche tutta una serie di personaggi di contorno, che parlano con accenti marcati, mancano della stessa finezza psicologica e culturale dei personaggi principali e spesso strappano al pubblico una risata. Sembra di trovarsi davanti a quella tipologia di attori comici che Shakespeare chiamava clown (i due becchini di Amleto per intenderci). Questi momenti non aggiungono nulla all’insieme né rivelano immutabili verità che la comicità è solita saper affrontare con grande lucidità. Al contrario spezzano fastidiosamente l’impetuosa avventura messa in scena da Boyle.

Ma ci sono anche altri rimandi shakespeariani, nel testo. Dear mette in scena la follia di Victor, quando è in Scozia intento nella creazione di una compagna per la sua creatura, facendo apparire in scena il compianto William. I due fratelli dialogano e ciò che più inquieta è vedere il piccolo William parlare di scienza con la consapevolezza di un adulto. E nell’assistere a questa scena uno non può fare a meno di pensare a tutte le fantasmagoriche apparizioni tipiche del teatro del Bardo… Delude anche il personaggio della cugina/moglie di Victor, Elizabeth. Ma in questo caso la situazione si fa più complicata. La sottile linea che divide la scrittura dall’interpretazione è davvero sottile, tanto da lasciare il dubbio se il personaggio sia bidimensionale per colpa del drammaturgo o dell’attrice (Naomie Harris).

La scenografia, a cura di Mark Tildesley, nella sua semplicità e nella purezza delle linee ha dell’architettonico. Si tratta di un ampio spazio scenico con al centro una piattaforma circolare e mobile. La completano delle rotaie, una zona costruita con dei tubi innocenti sui quali la creatura si arrampica con straordinaria agilità e altri elementi scenici che vengono o calati dall’alto o emergono grazie alla rotazione della piattaforma, utilizzati per accogliere lo spettatore nella baracca del generoso De Lacey o nella magione dell’austero padre di Frankenstein. Non vi è porzione di questa scenografia che non venga utilizzata. Con l’entrata di un treno dal sapore steampunk ci ritroviamo nella grande città dove di giorno regna l’alienante lavoro in fabbrica e di notte corruzione e prostituzione. Ma poi con l’aggiunta di un tappeto d’erba e il magico volo di uccelli ci si ritrova improvvisamente in aperta campagna; con il posizionamento di due pedane sul Lago di Ginevra. E infine con una nebbia di ghiaccio sintetico ecco apparire i gelidi e sterminati ghiacci del Polo Nord. Notevole è anche il lavoro del lighting designer Bruno Poet, che inventa un cielo di centinaia di lampadine e lampade vintage. Il suo uso della luce è in piena sintonia con le scelte narrative della regia. Il suo cielo si accende improvvisamente, abbagliando e sottolineando i tumulti interiori della creatura e con profonda maestria trasforma il legno del palcoscenico in terra, acqua o ghiaccio.

E ora i due protagonisti. In alcune recensioni uscite nel Regno Unito si nota una chiara propensione per la creatura interpretata da Jonny Lee Miller e per il Victor di Cumberbatch. Come già detto, la versione vista ieri offriva la distribuzione inversa. Miller e Cumberbatch sono senza ombra di dubbio entrambi due notevoli attori, ma è anche indiscussa la maggiore versatilità del secondo che abbiamo visto interpretare nell’arco degli anni sia personaggi comici sia personaggi drammatici risultando più che credibile in entrambe le vesti. Cumberbatch nel ruolo della creatura dimostra un’eccellente abilità corporea che gli permette di creare un’evoluzione fisica e psichica del personaggio stabilendo un profondo legame empatico con il pubblico. Non si può che condividere la sua pura e infantile meraviglia quando per la prima volta assiste al volo degli uccelli, al suono del loro canto e al tepore del sole sulla sua pelle. La sua rabbia, la sua delusione, la sua solitudine non suscitano alcuna indignazione, nemmeno quando si macchia di orribili delitti. Il suo mostro è più umano dell’uomo che lo ha creato.

Jonny Lee Miller è un Victor Frankenstein freddo, combattuto, pervaso da una follia inizialmente latente ma che finisce con l’esplodere in tutta la sua distruttiva perversione con l’evolversi della storia. Il suo Victor non diventa pazzo, lo è già. Ed è l’ossessione che nutre sin da bambino per la scienza, per i meccanismi dell’universo, a renderlo tale. Professa amore verso la cugina ma non intrattiene con lei alcuna relazione fisica e alla paternità biologica che potrebbe ottenere unendosi a lei preferisce quella del suo mostruoso laboratorio. L’ossessione caratterizza anche il finale di questo adattamento, ma non diremo di più. Lo stesso vale per la creatura, che proprio come un figlio abbandonato e rinnegato da un padre irresponsabile continua inesorabilmente a cercarlo, a pregarlo, ad amarlo e odiarlo al tempo stesso.

E l’abbandono è un sentimento capace di esaurirsi solo con la morte.

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