Matilde di Hochkofler
Un convegno a Parma

Donne e neorealismo

Sessant'anni fa il cinema nato al fianco della Resistenza si trasformava in "commedia all'italiana" rispecchiandosi nel Paese in crescita. E scoprendo la "nuovissima" questione femminile

Oggi si apre il convegno “Parma 1953-2013: 60 anni di neorealismo” nell’aula magna dell’Università dell’ omonima città. È organizzato dal Dipartimento Lettere Arti Storia e Società dell’Università di Parma con il contributo del Comune e di Barilla. Prosegue domani e il al Palazzo del Governatore con un fitto programma di relazioni di Roberto Campari, Gian Piero Brunetta, Orio Caldiron, Emiliano Morreale, Marco Bertozzi, Thierry Roche, Elena Mosconi, Pierre Sorlin, Alessia Cervini, Michele Guerra, Adriano D’Aloia, Ruggero Eugeni, Jean A. Gili, Manuela Gieri, Elena Dagrada, Francesco Pitassio, Antonio C. Vitti, Giacomo Manzoli, Andrea Minuz, Roberto De Gaetano, Gianni Canova, Stefania Parigi. Oggi al Cinema D’Azeglio si proietta Non eravamo solo… ladri di biciclette di Gianni Bozzacchi alla presenza di Enzo Stajola, l’indimenticabile Bruno del film di De Sica. 

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Sessant’anni fa, dal 3 al 5 dicembre 1953, si tiene a Parma lo storico convegno sul neorealismo che coincide con la crisi del nuovo cinema italiano nato nel clima euforico dell’immediato dopoguerra. Nel panorama dei centotrenta titoli dell’anno si riscoprono i generi forti del cinema-spettacolo, tornano in auge gli attori e vengono alla ribalta le maggiorate. Gli esordienti di talento stanno accanto agli intramontabili della vecchia guardia assieme alle conferme degli autori più promettenti che annunciano le svolte del prossimo decennio. Negli stessi mesi la censura si accanisce nei confronti della satira di costume e le autorità militari arrestano Renzi e Aristarco per aver pubblicato su “Cinema Nuovo” L’armata s’agapò, il soggetto di un film da fare (che non si farà) sulla guerra di Grecia. Il ’53 è proprio un annus horribilis che comincia con lo sciopero contro la legge elettorale nota come “legge truffa”, voluta dalla Dc di De Gasperi. Sempre più lontana dalle ambizioni sociali delle origini, continua a essere ostaggio dell’ideologia cattolica imperniata sulla santità della famiglia e gestita in prima persona da parroci, pulpiti, confessionali.

Sullo schermo, le cose non sono molto diverse se le donne, l’anello più debole della struttura sociale, continuano a essere sedotte e abbandonate, spose fedeli e perfide adultere, mantenute di alto bordo e prostitute di strada, insidiate da contesse equivoche e ricattate da prestanti gigolò. Ma tutte credono, fortemente credono, nel matrimonio. Non solo il matrimonio riparatore che sembra pareggiare i conti con il colpevole, ma anche il matrimonio come aspirazione unica e soluzione di tutti i problemi. «Ogni giorno mi sveglio con la stessa speranza: lo troverò oggi un marito che fa per me? Non penso che a questo», sospira Silvana Pampanini affacciandosi alla finestra della sua camera da letto in Un marito per Anna Zaccheo di un Giuseppe De Santis più che mai dalla parte delle donne, pronto a cogliere gli umori, quelli corrosivi ma anche quelli concilianti, della sceneggiata napoletana. Anna si sottrae alle intenzioni della famiglia che vorrebbe sistemarla con un ricco anziano per cercare lavoro come commessa in un negozio di antiquariato. Però è troppo bella e, secondo il proprietario, deprezzerebbe la merce. Se vuole sposare Andrea, il marinaio di cui è innamorata, ha bisogno della dote. Quando si presenta per farsi assumere come mascherina in un cinema, l’esercente l’abbranca con la scusa di insegnarle a maneggiare la pila al buio. Nell’agenzia di pubblicità si ribella agli approcci disinvolti del fotografo, ma il capo le suggerisce di sopportare le avances degli uomini. Impeccabile in città, un signore per bene quasi un padre, il proprietario in trasferta non esita a saltarle addosso e a violentarla. Il ritorno a casa è burrascoso perché la famiglia con tutto il quartiere è sconvolta davanti al manifesto delle calze in cui lei mostra una gamba nuda. Dopo un tentativo di suicidio, ritrova Andrea che con lungo bacio si dice pronto a dimenticare tutto. Ma quando passa la notte con lui, il giovane non ne vuole più sapere. Non può sposarla proprio perché è stata a letto con lui. Avrebbe dovuto rifiutarsi. «Ma perché dovrei rinunciare all’amore?», chiede lei. E lui: «Contro certe cose non possiamo farci niente». Nel segno dell’impossibilità di cambiare, il film finisce come era cominciato con Anna alla finestra di casa.

Non hanno bisogno di sposarsi le borghesi di Le infedeli di Steno e Monicelli perché un marito ce l’ hanno già e spesso anche un amante. Nelle serate a teatro, nelle feste in casa, nelle occasioni mondane, si destreggiano abilmente nella recita quotidiana della coppia perfetta, dove il gioco delle apparenze è fondamentale per nascondere l’intreccio di equivoci e tradimenti, di meschinità e di bugie in cui vivono. Non sono da meno i mariti che tengono solo alla facciata da esibire in pubblico o, peggio ancora, fanno di tutto per favorire il tradimento della moglie e correre a sposare l’amante. Sospeso tra mélo e commedia di costume, giallo e introspezione psicologica, il film inscena cacce al tesoro e tuffi in piscina, fatti di cronaca e giornalisti da rotocalco, quasi oscillando tra Cronaca di un amore di Antonioni e La dolce vita di Fellini. Senza Cesarina, la cameriera ingiustamente accusata di furto che si suicida, non si metterebbe in moto l’inchiesta poliziesca avviata dalle coraggiose dichiarazioni di Lilliana, la più vicina alla vittima per la sua estrazione proletaria. È lei che in questura cerca inutilmente di smascherare la trama di compiacenti ambiguità e di oscure minacce con cui il suo ex amante ricatta le amiche approfittando dei loro segreti d’alcova. Ma tutti negano. Nessuno vuole compromettere la propria posizione sociale in un mondo che non ha bisogno della verità ma si accontenta del teatrino delle apparenze.

Anche Gina Lollobrigida, Pizzicarella la Bersagliera di Pane, amore e fantasia di Luigi Comencini, punta al matrimonio cantando: «Famme trova’ chi pensa ‘l core mio/ famme trova’ lo sposo che dich’io./ Sole lucente, sole dell’ammore!/ Famme trova’ lo sposo che dich’io». Nel clima fuori dal tempo di Sagliena, i settecento abitanti sono soprattutto contadini che non devono scendere in piazza per ottenere la terra, ce l’hanno già insieme alla fame atavica e alla miseria più nera. Nella carnevalizzazione del piccolo paese, più che il sindaco, le autorità sono la chiesa e l’arma dei carabinieri, e cioè il parroco don Emidio e il maresciallo Carotenuto che si scambiano le visite di cortesia pronti a intervenire negli occasionali contrasti tra gli abitanti, come a mettere la mano nel portafoglio o nelle cassetta delle elemosine per confermare i poveri nella loro immutabile condizione. Ma a guardare la processione verso il santuario e la chiassosa eccitazione per il falso miracolo, da cui prende comunque le distanze, è sempre la chiesa a prevalere con la sua capacità di rassicurazione e di conforto. Sotto il vigile controllo dei paesani muniti di cannocchiale e di Caramella attenta ai mormorii della “ggente”, si snodano le storie parallele della Bersagliera e del carabiniere Stelluti, del maresciallo Carotenuto e della levatrice Annarella, che nelle puntate successive della serie andranno verso l’immancabile lieto fine. Assieme alle due comari come testimoni, la madre della protagonista non esita a tendere un’imboscata al presunto seduttore della figlia, convinta che «anche un porco può diventare marito». Il maresciallo non potrebbe sposare la levatrice perché sedotta e abbandonata con un figlio illegittimo, ma è pronto a dimettersi per portarla all’altare. Il trionfo del film, campione d’incassi della stagione, suscita polemiche e recriminazioni. Accusato di affossare il neorealismo, è invece uno dei tanti segni del cambiamento in corso e apre la strada alla commedia destinata a diventare “all’italiana” quando si incontra con la scelta di incidere in modo irriverente sulle contraddizioni e le ingiustizie della nostra società.

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