Andrea Carraro

Storie di ladri comici

Don Chisciotte diventa uno dei "soliti ignoti": ecco la scommessa del nuovo romanzo di Davide Bregola. Uno dei rari (e felici) esempi di letteratura fantastica che aiuta anche a ridere

Tre allegri malfattori di Davide Bregola (Barbera) è un testo narrativo che si colloca in una zona di confine fra vari generi –  un po’ favola metropolitana, un po’ allegoria sociale, un po’ thriller picaresco, un po’ romanzo comico ecc. – e racconta la storia rocambolesca, di una banda mantovana di rapinatori  disoccupati,  cialtroni e donchisciotteschi,  che cercano di tirare avanti con piccole truffe  sempre operate “a fin di bene”, contro i “cattivi” e a favore dei “buoni”.  Ma attenzione: i buoni non sono necessariamente i poveri e gli emarginati secondo una vulgata socialisteggiante e pauperistica che anzi in qualche caso viene presa di mira dalla satira dell’autore: le categorie morali si adattano piuttosto alle circostanze e all’estro del momento  dei protagonisti.

I tre giovani malfattori decidono a un certo punto di fare il “colpo del secolo” per sistemarsi in modo definitivo, ovvero di rapire il “primo lettore della Storia dell’Umanità” durante il Festival letterario di Mantova: un reperto archeologico vecchio di 5000 anni, soprannominato l’”uomo dei ghiacci”. Come in ogni storia epico-picaresca che si rispetti c’è anche una “femme fatale” (saporite le descrizioni delle fantasie sessuali che la giovane e avvenente donna ispira al Filosofo) e alcuni personaggi minori tratteggiati con piglio umoristico: perfino un topastro peloso da laboratorio che viene portato dentro la tasca e ogni tanto sbuca fuori a spaventare questo o quella, chiamato dapprima Mimmo, e poi, quando si svela il suo sesso per via di una copiosa cucciolata che sforna a casa del Filosofo, Mimma).

Il pregio di questo libro è di essere divertente, a tratti spassoso, e ben scritto. Il linguaggio dell’autore è semplice e funzionale alla narrazione, pur non disdegnando una scanzonata colloquialità, ricco com’è di espressioni gergali più inventate e fumettistiche che reali (“dindi”, ”ghenga” ecc.). Insomma una lingua che si plasma senza attrito al contesto di una favola postmoderna, cioè a una storia fuori dal tempo (sebbene alcune coordinate della contemporaneità persistano), lontana da ogni intento mimetico-realistico. Restano impresse certe descrizioni del notturno paesaggio urbano: «Superammo case costruite in bilico fra il cielo e i precipizi del Trincerone, un tempo zona acquitrinosa dove ora al posto dell’acqua ci sono grossi avvallamenti di torba nera…», alcuni sapidi e caricaturali ritratti (vedi quello, esilarante, di Nietzsche a Torino: «Poi un giorno, mentre passeggiava per il centro di Torino, vide un cocchiere frustare il cavallo che trainava un calesse e di colpo impazzì credendo di essere Gesù Cristo, poi disse di essere Dioniso, poi un cantante napoletano e infine immaginò di essere il Re d’Italia»).

I numi tutelari di Bregola? Beh, certo Cavazzoni forse, certo Benni, anche certo cinema americano iperrealistico, più Fratelli Coen che Tarantino. In Italia la letteratura comica, spesso affidata ai comici televisivi, è quasi sempre deludente, perché sciatta nella scrittura e troppo orientata all’attualità. Questo libro di Bregola rappresenta una felice eccezione.

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