Nicola Fano
Reportage dal sogno del nuovo teatro

Pisa città aperta

A Pisa, un gruppo di ragazzi ha occupato una sala settecentesca chiusa da oltre mezzo secolo. Non lo hanno chiamato Rossi Occupato ma Teatro Rossi Aperto. Ecco la loro storia

A Pisa, un gruppo di volenterosi (artisti, ricercatori, studenti, precari) ha occupato un teatro: quello, settecentesco, intitolato a Ernesto Rossi. Ma programmaticamente, queste persone non hanno chiamato il “loro” teatro Rossi Occupato, lo hanno chiamato Teatro Rossi Aperto. C’è una bella differenza rispetto ad altre esperienze in corso in questi tempi. Sono andato a Pisa per incontrare gli “occupanti” e capire meglio questa storia. Eccola: è un po’ lunga, ma va raccontata per intero.

Intanto, il Teatro Ernesto Rossi, edificato nella seconda metà del Settecento e celebre per tutto l’Ottocento e il primo Novecento come il tempio dell’opera e della prosa di Pisa, era chiuso dagli anni Cinquanta. Chiuso. Serrato. In senso proprio. E da molti decenni. Ora è di nuovo aperto e la gente di Pisa ci va spesso e volentieri. La sorte del Rossi, poi, prima dell’occupazione (del settembre dello scorso anno) era quanto mai incerta. Bisogna partire lontano per ricostruirla. Il teatro (prezioso e ricco) nasce come grande sala nobiliare: la struttura ricorda un po’ il Valle di Roma (è un classico teatro all’Italiana, credo che possa ospitare il linea di principio cinque/seicento spettatori tra platea e palchetti). Ai fasti dell’Ottocento e del primo Novecento segue un periodo di lento tramonto (in corrispondenza al successo del rivale Teatro Verdi). Finché la sala viene requisita dal fascio locale durante il Ventennio diventando base del fascismo cittadino e luogo di sontuose feste da ballo. Con la caduta del fascismo, la struttura viene espropriata dal demanio (la proprietà ancora oggi è della Soprintendenza dei beni di Pisa e Livorno) e ceduta in gestione al Comune il quale, fino alla seconda metà degli anni Cinquanta, lo usa sia come contenitore di feste da ballo sia come cinema sia come teatro (specie di avanspettacolo). Poi il tracollo e la chiusura. Cui seguono una serie di tentativi di restauro e riapertura, finché il Comune non decide di usarlo come ricovero di biciclette e oggetti smarriti.

pisa4E siamo al Duemila, quando la Soprintendenza ha una pensata geniale: la fondazione degli Uffizi Pisani! Arrivando in centro città dalla Stazione, attraversato l’Arno ci si imbatte in un palazzo principesco con una piccola targa: “Uffizi Pisani, visita su appuntamento”. Ingenuo, ho pensato: gli Uffizi (quelli veri, quelli medicei di Firenze) hanno deciso di cedere a Pisa parte delle opere conservate nei loro magazzini, creando una sorta di dependance, una specie di Louvre di Lens. Invece no. È come se noi di Succedeoggi da domani decidessimo di cambiare la testata e chiamarci, chessò, Corriere della Sera della Cultura: qualche gonzo ci cadrebbe di sicuro e, pur di farsi ben volere a Via Solferino (pardon, ex-via Solferino), magari ci farebbe una bella donazione. Insomma, gli Uffizi Pisani non c’entrano niente con quelli di Firenze. E, oltre a ospitare una collezione di opere nella sede centrale, quella sul Lungarno, avevano pensato di risistemare il Teatro Rossi per farne un “polo museale”, una sala da mostre e da conferenze…

pisa6Polo museale sembra una parola magica, in questa Italia stracciona che destina alla cultura lo zero-virgola-zerozerozero del proprio bilancio. Un bel polo museale non si nega a nessuno: è sinonimo di restauri danarosi, di eventi glamour, di finanziamenti ricchi. A parole, almeno. E infatti il “polo museale” pisano frena le proprie ambizioni di fronte alla complessità dei restauri del teatro Rossi. Restauri che, comunque, iniziano, pur senza finire. Oggi si vedono le condutture idrauliche ed elettriche nuove, l’impianto di riscaldamento sistemato ma non funzionante (mancano caldaie e caloriferi); ma ci sono anche le finestre rotte (che hanno prodotto una minacciosa colonia di piccioni nella graticcia), il massetto scoperto in platea e gli affreschi (di modesto valore, si direbbe) tamponati per studiarne la possibilità di ripristino. Insomma, sembra una di quelle autostrade mai completate con i viadotti che improvvisamente finiscono nel nulla tipiche della nostra Italia violentata. Ed è un vero peccato.

Perché il Teatro Rossi è innanzi tutto un bel teatro. Grande, ricco, pieno di sale e disimpegni, con una graticcia in legno di sicuro pregio, con un palcoscenico enorme diviso in due da un arco a ogiva che – per quanto ne so – è abbastanza raro in una struttura del genere. Sui giornali locali, all’epoca (primi anni Duemila) girarono cifre da capogiro per il restauro, ma è probabile che l’investimento potrebbe essere molto più limitato se il restauro non avesse la pretesa di essere filologico ma “creativo”: l’Europa del Nord è piena di sale antiche ammodernate in modo geniale così da essere funzionali a produzioni contemporanee. E, del resto, il problema è tutto qui: che cosa si potrebbe farne, del Teatro Rossi ora che un gruppo di volenterosi lo ha riaperto regalandolo alla città e togliendolo dalla spazzatura e dal dimenticatoio?

A Pisa c’è un teatro (il Verdi) che da sempre identifica se stesso con la prosa tradizionale, e c’è una sala più irregolare, il Teatro Sant’Andrea, dedito alla sperimentazione scenica e animata dal gruppo “I sacchi di sabbia”. Manca un luogo intermedio, uno spazio adatto alla commistione dei linguaggi dei generi (teatro, musica, danza, arte, performance) che al tempo stesso sia centro di aggregazione giovanile anche oltre sala per le rappresentazioni serali e vetrina di nuove arti. Il Teatro Rossi potrebbe essere questo, il Teatro Rossi Aperto prova a essere questo.

pisa5Pisa è una città che si riconosce dai panini e dalle lingue. A mano a mano che ci si allontana dalla Piazza dei Miracoli, i panini diventano più gustosi e meglio imbottiti (devono rifocillare giovani studenti e non turisti distratti che hanno appena sorretto la Torre nelle loro banali fotografie!). Come pure, via via che ci si allontana dalla meravigliosa piazza, le lingue asiatiche o i dialetti spagnoli e americani lasciano il passo alle lingue italiane: napoletano, siciliano, barese, foggiano, calabrese. Sì, Pisa è un’enclave di studenti di ogni angolo d’Italia e il Teatro Rossi Aperto è proprio lì, nel cuore della cittadella universitaria, di fronte all’ingresso della Facoltà di Lettere: meglio di così, che si può volere per un teatro da dedicare all’incrocio delle arti? E infatti i ragazzi e ragazze che hanno riaperto il Teatro Rossi proprio a questa funzione strategica pensavano. Con tale idea fissa (ridare uno spazio alla città e alle nuove generazioni) mi hanno accolto per una lunga visita guidata alla loro “casa”, ai loro sogni e alle loro speranze. Visita cominciata con una domanda obbligatoria: chi paga la corrente elettrica? “Noi: ci tassiamo e per questo chiediamo un contributo volontario a chi viene qui a vedere spettacoli”. A Roma, come è noto, è la cittadinanza a pagare le utenze del Valle Occupato (non Aperto). Il guaio è che il Teatro Rossi Aperto è fermo al mezzo restauro, nel guado del nulla dal quale questi ragazzi stanno cercando di toglierlo. Loro l’hanno ripulito; ne hanno risanato le vecchie (bellissime!) poltrone di velluto rosso; hanno ripristinato le dotazioni di sicurezza fatte di segnaletica, porte e estintori; ne estirpano ciclicamente il guano prodotto dalle colonie di piccioni; lo tengono come quel piccolo/grande gioiello che è. La programmazione è mista, con cadenza settimanale (nel senso che cambia ogni giorno secondo una griglia settimanale: musica, teatro, poesia, serate d’arte, presentazione di libri…). Ho chiesto loro: che cosa rende il Teatro Rossi Aperto diverso da un centro sociale? E mi hanno risposto un po’ offesi: non c’è niente di male ad essere un centro sociale! Ma loro in più hanno un progetto culturale abbastanza evidente: che è quello di dare voce a tutti quanti in città e altrove puntano a mescolare i generi e a contaminare i linguaggi. E questo, aggiungo io, è l’unico percorso artistico possibile per un centro di produzione che voglia restare al passo con la sensibilità di oggi.

pisa3Il nodo del Teatro Rossi Aperto è il suo futuro. Così com’è, bello, dimesso e disincantato come una vecchia zia, ha un futuro incerto, quasi impossibile. Bisognerebbe che le istituzioni si facessero carico di questo progetto e, previo un limitato restauro (non tutti gli stucchi sono da recuperare, per carità!), gli dessero un domani. Il Comune è sensibile alla questione ma la Soprintendenza titolare della proprietà della sala non ne vuol sapere di riconoscere al progetto Teatro Rossi Aperto una qualunque dignità: la Soprintendenza pare ferma alla vecchia, già tramontata nei fatti, idea degli Uffizi Pisani. Forse basterebbe che attraversassero la Piazza Carrara e entrassero nella vitalità del Teatro Rossi Aperto per capire che lì dentro c’è una prospettiva che può riguardare tutti, tutta la città: “polo museale” è una bella parola, ma priva di sogni e utopie. E invece a muovere il futuro sono soprattutto i sogni e le utopie.

Le foto dell’interno del teatro sono state realizzate dal collettivo fotografico Outofline di Pisa

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