Pier Mario Fasanotti
A fil di Rete: dalla Munro ad Ammaniti

Web e letteratura

Mentre aumenta il consumo dei prodotti letterari via Internet, su alcuni siti ci si scambiano impressioni su quelli che devono essere considerati i “grandi scrittori italiani”. E si aprono voragini di assenze che vanno da Bilenchi, alla Morante, a Sciascia, a Giuseppe Berto (di cui, opportunamente, Rizzoli ripubblica ora i racconti)

È passato un mese dall’assegnazione del Nobel per la letteratura ad Alice Munro, canadese di 72 anni. Profili e commenti (tutti improntati all’applauso) su quotidiani e su siti web. Qua e là si è notato che la Munro è autrice di racconti, un genere che, se proposto dagli italiani, fa saltare sulla sedia i nostri editori. Abitualmente la risposta più garbata, accompagnata da una smorfia di scoramento, è la seguente: li tenga nel cassetto, non si sa mai. La risposta più brutale si appella al realismo del mercato (molto discutibile, peraltro): si vendono, quando si riesce a venderli, solo i romanzi, ma i racconti no, proprio no; provi magari da una piccola casa editrice. E così via, sulla scia dell’abitudine dei grandi quotidiani nazionale a distribuire elogi ai vari Cechov moderni, a patto però che siano stranieri. Basta ricordare le paginate dedicate a dettagli minimi che riguardano vita e opere di Raymond Carver o di J.D. Salinger. Il commento, l’unico possibile, è questo: provincialismo, sciatteria, conformismo. Recentemente sono stati pubblicati (dalla Rizzoli) i racconti di Giuseppe Berto. Reazione nulla o comunque molto ma molto fiacca dei critici e dei divulgatori-recensori sui quotidiani e sulle riviste.

In alcuni (pochi) siti web è cominciata tuttavia una conversazione tra utenti su quali siano da considerare “grandi scrittori italiani”. Ne è venuto fuori un chiacchiericcio cosparso da considerazioni varie, ma soprattutto connotato da una vasta ignoranza sui nostri scrittori del Novecento. Ho detto “chiacchiericcio”, ma non deprecandolo: su un sito non ci possono essere discorsi che abbiano l’ampiezza di una conferenza o di un saggio. Circa la dimenticanza (eufemismo) di molti scrittori c’è solo da mettersi le mani tra i capelli. Lo so, è una vecchia questione: se non c’è una Adelphi che rilanci, che ne so, Curzio Malaparte e prossimamente (pare) Vasco Pratolini (autori che erano nel catalogo Mondadori, così snobbato dagli editor o magari dal marketing, ammesso che questo settore sia composto da gente di cultura medio-alta), dinanzi a certi nomi, pur importantissimi, si avverte lo stupore, la diffidenza, la sensazione dell’andare tra la polvere della soffitta o nei negozi Remainder. In tanti hanno detto la loro. In pochi hanno ricordato narratori che solo 30-40 anni fa sono stati bestselleristi senza rinunciare (anzi) alla qualità letteraria.

Tra i dimenticati elenco a caso questi nomi: Pier Paolo Pasolini (è pur vero che molti lo associano al cinema, dimenticando quel che ha scritto), Romano Bilenchi, Mario Soldati, Vasco Pratolini, Dino Buzzati, Giuseppe Berto (anche se qualcuno, per motivi diversi, usa la sua espressione-titolo “il male oscuro”), Carlo Cassola, Umberto Eco (associo i due nomi ricordando che il secondo, quando nacque il Gruppo ’63 a Palermo, definì il primo «il Liala del Novecento»), Manlio Cancogni, Elsa Morante, Alba de Cespedes, Lalla Romano. E finisco qui, per non annoiare con un elenco quasi telefonico. Quello che io, ingenuamente, credevo fosse il più “ricordabile” del Novecento, ossia Alberto Moravia, non ha avuto, come si suol dire nemmeno un clic. Tutti indifferenti a Gli indifferenti, primo romanzo (1929 che l’autore pubblicò a sue spese (5000 lire di allora). Eppure ne scrisse altri trenta, e Gli indifferenti diventò film di successo, con J.L.Trintignan; ma non solo quello: pensiamo alla Noia diretto da Damiano Damiani, o a La ciociara, con Sophia Loren, regia di De Sica.

In questa frastagliatissima conversazione a distanza, si sono infilati due generi di persone: quelli che accolgono in rete prodotti letterari, molti dei quali restano pressoché invisibili, quelli che pubblicano a semi-pagamento in forma cartacea salvo poi non trovare riscontro, per esempio su Amazon (compare la scritta “non disponibile”, alla faccia della sbandierata promessa “visibilità”) e quelli che colgono l’occasione web per mostrare, come editori, i propri prodotti. Qualcuno li ha accusati di badare solo ai soldi. Risposta di Luciano (edizionidelgattaccio.it): «Maria, sono un editore… quindi, secondo te miro esclusivamente al profitto. Purtroppo la Esselunga dove faccio la spesa mira esclusivamente al profitto. Lo stampatore dove faccio stampare mira esclusivamente al profitto. Il benzinaio dove ogni tanto faccio il pieno mira esclusivamente al profitto…». E così viene azzittita la povera idealista Maria.

Si riferisce al vil denaro anche un altro navigatore internet: «Secondo me i grandi artisti esistono in tutte le epoche. Esistevano anche quando l’uomo era ancora una scimmia. L’arte è un dono di Dio e chi ce l’ha deve lasciare le sue opere in eredità all’umanità intera. Il problema dell’epoca attuale risiede nel fatto che gli editori hanno perso la loro originaria funzione di scopritori di talenti e mirano esclusivamente al profitto. Quando il denaro diventa la cosa più importante, tutto il resto viene svalutato, anche l’arte». Occorre obiettare a quest’altra Maria che ha una sacrosanta ragione sulla pigrizia di molti editori non più talent-scout, ma ha torto pensando agli editori alla stregua della Caritas.

Tale E.G. ci fornisce una sorta di lectio magistralis: «Forse il romanzo è uno strumento superato di comunicazione. È diventato un mezzo usa e getta. È rarissimo leggere un contemporaneo due volte. Ha assunto il valore di un giallo, che una volta veniva considerato letteratura da spiaggia… e poi se uno non lavora, ma scrive soltanto, di che parla? Delle sue fantasie? E a chi interessano? Inevitabilmente, nel chiuso del proprio studio, è destinato a ripetersi. Mi chiedo se la saga della Rowling o i gialli di Fleming o di Simenon o di Agatha Christie non fossero stati trasposti nella cinematografia o in riduzioni televisive, avrebbero avuto così grande successo?».

Gentile E.G., a parte il suo traballante lessico, dovrebbe ricordare che, per esempio, Georges Simenon ebbe straordinaria fortuna con le sue pubblicazioni, indipendentemente dalle “trasposizioni” cinematografiche. E poi, sul giallo, viene spontaneo rammentare che Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, di Carlo Emilio Gadda, pietra miliare della letteratura, è nato come giallo (l’autore confessò d’essersi ispirato a un ritaglio di giornale, apparso nelle pagine di cronaca nera) e dalla gabbia mediocremente giallista si libera e vola alto perché è un capolavoro. Semplicemente per questo. Lo stesso vale per Leonardo Sciascia, altro autore non citato nel chiacchiericcio web malgrado la notorietà del film Il giorno della civetta, nato da un suo romanzo e che fece cassetta. Ricordiamo inoltre che fu lo stesso Sciascia a chiarire che il giallo è un pretesto, una cornice entro la quale uno può scrivere di tutto. Ma proprio tutto. Del resto anche I promessi sposi del Manzoni partono da un’intimazione di stampo spagnolo-mafioso e contemplano un rapimento (di Lucia). Ma vogliamo ridurre quest’opera a “giallo da spiaggia”?

Una certa Marinella ha il piglio professorale: «…mi permetta di chiederle, educatamente, sommessamente, civilmente se pensa che Sciascia, Morante, Fallaci, Baricco non sfigurano accanto a Pirandello, Verga, Gadda, per rimanere in Italia… senza parlare degli immensi come Dante». Certamente quello di Marinella è lo spunto per fare chiarezza e avviare una vera conversazione. Tale M.I. cita, per fortuna, Vincenzo Consolo, definendolo un grande. Idem per Stefano d’Arrigo. Se non altro M.I. pare sia un lettore “forte”, o comunque molto attento nei confronti dei “sommersi”, e talvolta, “non salvati” del nostro Novecento. Altri tirano in ballo Erri De Luca, qualcuno lo definisce “un mezzo scrittore”. Ben altrimenti considerato è Italo Calvino, anche se, scorrendo il botta-e-risposta del web, si ha l’impressione che pochi conoscano a fondo le sue opere. Un po’ perentoria/o, ed ermetico/a ci appare tale Narda: «Io sono un poeta, la prosa occupa un cantuccio che si attiva quando trabocca».

A proposito dei racconti e del premio Nobel alla Munro, tale Daniele sfodera, e fa bene, una frase di Niccolò Ammaniti: «Il racconto è come la passione di una notte». Un dubbio però sorge spontaneo: Ammaniti intendeva un’emozione non duratura o qualcosa che s’imprime nella memoria proprio per la sua intensità “notturna”?

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