Pier Mario Fasanotti
“Gli sdraiati”, cronache dell'adolescenza

La specie & la felpa

Quella degli adolescenti di oggi è una mutazione genetica. Lo sostiene Michele Serra partendo dall'osservazione ravvicinata di suo figlio. E raccontando, da arguto cronista oltreché da genitore, di divani-cuccia dove si svolgono le più svariate attività, di code davanti a negozi trendy, di una vendemmia nelle Langhe...

Divertente? Sì, oltreché arguto, come del resto sono tutti gli scritti di Michele Serra. Amaro? Molto, anche se il finale è sobriamente consolatorio nel suo ammiccare all’allegoria d’una fiaba. Il baricentro di questo saggio, che ha divagazioni romanzesche di stampo comico, è il seguente: se osserviamo bene, meglio se da padri, il mondo degli adolescenti, si arriva a questa conclusione: ci troviamo di fronte non tanto a un cambiamento (questo sarebbe del tutto normale, fisiologico) quanto a una mutazione, a una evoluzione della specie della quale però facciamo una fatica tremenda a intuire i confini e gli (eventuali, possibili, probabili: chi lo sa) punti d’arrivo. Il titolo è del tutto azzeccato: Gli sdraiati (Feltrinelli, 108 pagine, 12 euro).

Sì, perché i sedici-diciottenni (ma la lancetta anagrafica deve essere elastica) sono spesso, anzi spessissimo, sull’oggetto-feticcio, o cuccia esistenziale, che è il divano. Racconta Serra che per un minuto buono fissa suo figlio: «Eri sdraiato sul divano, dentro un accrocco spiegazzato di cuscini e briciole. Annoto con zelo scientifico, e nessun ricamo letterario. Sopra la pancia tenevi appoggiato il computer acceso. Con la mano destra digitavi qualcosa sullo smartphone. La sinistra, semi-inerte, reggeva con due dita, per un lembo, un lacero testo di chimica, a evitare che sprofondasse per sempre nella tenebrosa intercapedine tra lo schienale e i cuscini, laddove una volta ritrovai anche un würstel crudo, uno dei tuoi alimenti prediletti. La televisione era accesa, a volume altissimo, su una serie americana nella quale due fratelli obesi, con un lessico rudimentale, spiegavano come si bonifica una villetta dai ratti. Alle orecchie tenevi le cuffiette, collegate all’iPod occultato in qualche anfratto: è possibile, dunque, che tu stessi anche ascoltando musica». Ebbene, se non si vuole fare la parte degli ipocriti, i padri che hanno più o meno l’età di Michele Serra, ossia 59 anni (ma anche meno, poco importa), devono ammettere di leggere una pagina autobiografica d’impronta familiare.

Già, familiare: ma il lessico familiare dov’è? Semplicemente non esiste. Magari i volonterosi potrebbero immaginarselo dietro quel muro di silenzio più tozzo e pesante di quello di Berlino, quando c’era ancora. L’autore lo vorrebbe abbattere. Se durante il Sessantotto il dialogo era diventato concitato, così alterato da poter preludere a una rissa, a un duello, a un braccio di ferro, oggi la nuova generazione non parla con noi, ma con gli altri seguendo un fraseggio tecno-primitivo, culturalmente riduttivo, ultra-elementare e ripetitivo fino alla nausea nella sequela immutabile delle abbreviazioni o dei (quasi) neologismi. Dico “quasi” perché se uno non è proprio sordo conosce a menadito parole come “scialla”, “bella”, “becchiamoci”, eccetera. Anzi, si potrebbe, a questo punto fare una divagazione, che Serra non fa: gli adulti hanno, tra gli elementi che li separano, la conoscenza dei comportamenti e del linguaggio dei diciotto-ventenni. Due padri non hanno bisogno, in ascensore o al bar, di parlare del tempo, avendo argomenti filiali talmente vasti da sconfinare in un dibattito. Con repliche per le signore-madri, anch’esse corrose dal senso dell’incomprensione, quella che ti fa girare la testa, e schiaffeggiate dai sensi di colpa, altra connotazione forte dei genitori di questa nostra epoca, priva di ottimi esempi etici, politicamente confusissima (e daje e daje, uno non sa più a chi dar ragione, e alla fine si legge un giallo o guarda alla tv le imprese di un serial killer).

Alla domanda del padre, cioè Serra, su cosa stesse leggendo, tra musica e immagini televisive dal contenuto incredibilmente marginale, il figlio risponde: «È l’evoluzione della specie». La frase fa riflettere il papà, un po’ smarrito, e molto avvilito, sui «presagi sull’inarrestabile degrado dell’umanità». Poi ci arriva al “dentro” del messaggio, e ammette: «Penso che tu avessi ragione. Di quale specie, però, al momento attuale ancora non abbiamo contezza». E tra sé e sé (e con chi altro potrebbe condividere i pensieri?) rimugina: «La cosa pazzesca è che nella verifica di chimica hai preso sette. Il voto perfetto, secondo me. Sei è risicato, otto è da secchioni».

Michele SerraAttenzione: il libro di Serra è una spietata radiografia dell’adolescenza che, tra parentesi, ha tra le sue varie e possibili etimologie quella dell’odore o, se vogliamo anche della puzza, contrariamente al profumo soave o borotalcato del bambino, ma è soprattutto un sipario realisticamente amaro dove vengono recitate situazioni comiche, tutte vere e ben conosciute dai padri che s’interrogano angosciosamente su che uso fare dell’autorità o dell’autorevolezza, ammesso che l’abbiamo o abbiano voglia di esercitarla (sì, ma come? Di fronte a loro, agli sdraiati, diventiamo tutti Amleto, con la differenza che quello aveva alle spalle e attorno a sé la figura genitoriale). In agguato, riconosciamolo, c’è sempre il rischio di raccontare com’erano diversi, com’erano rigidi e ordinati -ma anche boe di riferimento, eccome, visto che procuravano un’indicibile serenità – i tempi dei “vecchi”. Serra riferisce di una giornata e mezza passata nelle Langhe a far da vendemmia. Alcuni adulti e due adolescenti. La sveglia mattutina non è proprio da caserma, eppure quei due continuano a dormire visto che hanno parlottato fino a ore piccole. Al momento del pranzo, i ragazzi, finalmente homines erecti, chiedono di far colazione. Una signora con un certo piglio risponde che il caffè si beve dopo pranzo, e loro, gli adulti stanno finendo di pranzare, quindi un attimo per favore. Un altro adulto, un uomo, riflette e poi sbotta. Una verità incontestabile esce dalle sue labbra: «Certo che un mondo dove i vecchi lavorano e i giovani dormono, prima non si era mai visto». Ha detto «non si era mai visto», non che è cosa morale, immorale, giusta o sbagliata. E Serra scrive che effettivamente è vero: non s’era mai visto questo «sonno ostinato, pregiudiziale, del tutto indipendente da quanto li circonda, per giunta pagato dal lavoro altrui (il lavoro dei vecchi)». È un inedito, «un meccanismo che muta e complica gli ingranaggi della macchina del tempo».

Altro esempio, o altra esilarante scenetta teatrale: la gita in massa, che avviene di solito nel trafficatissimo sabato, verso il nuovo negozio di felpe chiamato Polan&Doompy, filiale-protesi dell’omonimo americano. La furbata che sta dietro una coda di trecento metri e più è la seguente: compri quella felpa da circa 200 euro e così non stai a giustificarti per non essere mai stato nella Grande Mela, assenza da sfigatissimi. L’enorme folla comprende anche gruppi che vengono dalla Brianza, dall’hinterland che si vuole dare arie da grande città (mica bastano sempre i centri commerciali, questi acquari del consumismo da fine settimana: già, ma dove puoi altro andare?) e così l’esclusività scivola nel conformismo da importazione. Ehi, sarai pure di Baranzate, cazzo, ma hai una felpa americanissima, proprio quella che si trova tra la dodicesima e la…eccetera: stupore che regge fin quando, grazie a un mostruoso passaparola, ovviamente online, vieni a sapere che basta un’ora per venire a Milano e qui trovare l’America. La felpa, direi io, è la versione moderna e caricaturale della “Merica” dei nostri avi che migravano nella famosa land of opportunities, gli United States of America, porco cane, mica il Belgio piatto e noioso e con le sue mortifere miniere, eh no!

Torniamo al mondo dolciastro e gommoso delle felpe. Vale la pena. Serra li ha osservati da lontano nel giorno domenicale, ma, da bravo reporter, si è infilato nel negozio di mercoledì. Non poteva resistere. Era un passo essenziale per chi solitamente viviseziona i costumi, i tic, le manie e le lerce variazioni che hanno subito i contatti umani. Ecco la coda per le felpe, lunga quanto una manifestazione studentesca (ma se ne fanno ancora, mi chiedo io a questo punto?). Innanzitutto i nomi: mica si chiamano tra di loro Filippo, Adriano, Carlo, Antonio e così via secondo madre-anagrafe. No, «i protagonisti del rito dell’avvento», annota Serra che cita il web, si chiamano Maggie, Stelly, Niko, Frankie, Riko, Toffy, Paffy, Wally, Lillo, Pussy, Preppy, Benny, eccetera. Tra i “felpomani” è «una specie di obbligo morale avere un nickname di due sole sillabe». Poi si sente una domanda: «Ma davvero ti chiami Pierfrancesco?».

Polan&Doompy non è un negozio come gli altri. Secondo un blog di moda è, semmai, un casual luxury lifestyle brand. E va bene. Si procede con le carte di credito. Prosegue l’esplorazione dello spazio. L’aria è profumatissima, «la penombra rossastra è un indizio. Di un mostruoso narcisismo. Sì, anche se non soprattutto di chi ha l’incarico di vendere. Anche i commessi non sono commessi. Non proprio. Sono ragazzi molto belli e ragazze molto belle, poco vestiti, sorridenti senza esagerare (un sorriso eccessivo metterebbe a repentaglio l’impostazione dei lineamenti), per statuto non parlanti, addestrati a rivolgere a chi entra solamente un “Hi!” o un “Hey!”, o altri fonemi brevissimi ma confidenti». Pare che espongano solo se stessi, dal momento che il giovane compratore non deve, o non osa, chiedere «a questi fichissimi e fichissime informazioni, prezzi, dislocazione delle felpe e delle magliette».

Serra è sinceramente stordito, e turbato quale “buzzurro latino”, da quell’aura da harem, «tutto quell’eros continuamente suggerito, promesso, allestito e poi non concesso». È il regno dei “manichini viventi”, che fa sì che Serra si senta «chiatto e di sinistra in mezzo a nugoli di eroici guerrieri teutonici, anche se reclutati nel Varesotto o nella Bergamasca, magari, ma insomma (grazie a una severissima selezione) tendenti al settentrionale quello vero, non quello prealpino che è una maniera diversa di essere terroni».

Nel commentare il libro di Michele Serra, lo psicologo e psichiatra Massimo Recalcati ricorda una cosa fondamentale: «Freud dava ai genitori due notizie, una cattiva e una buona. Quella cattiva: il mestiere del genitore è un mestiere impossibile. Quella buona: i migliori sono quelli che sono consapevoli di questa impossibilità». Ossia, aggiunge l’esperto, che l’insufficienza, la vulnerabilità, la fragilità, il senso dei propri limiti, non sono ingredienti nocivi all’esercizio della genitorialità. Meno male. E consoliamoci con l’avvertimento di Recalcati: «Il segreto più grande nel rapporto tra le generazioni è quello di saper amare la vita del figlio anche quando la nostra inizia la fase del suo declino». Proveremo, certamente, a crederci. Nel frattempo cercheremo nostro figlio tra calzini puzzolenti, scarpe di gomma enormi, luci e suoni in continua attività, anche quando lui non c’è. Cercheremo di capire. Di sforzarsi ogni giorno, con strategie diverse, a imporre all’adolescente una bella e dura camminata in montagna. La soddisfazione sarà magari quella di trovarlo improvvisamente molto davanti a noi, in cima a una vetta, mentre urla «papàaa! Sono qui». Allora si fa finalmente giusta la sensazione di essere diventati vecchi e di aver evitato la grottesca finzione del padre-amico, così tanto deprecata dai nostri figli.

Clicca qui per leggere l’intervento di Andrea Carraro sullo stesso libro

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