Luca Fortis
Viaggio tra i nuovi italiani

La casbah di Mazara

La città siciliana, da sempre votata alla pesca e all'intreccio di culture, è tra quelle in cui l'integrazione tra etnie diverse è stata più rapida e fruttuosa. Certe, la Storia è stata d'aiuto...

Il suono del muezzin si diffonde nell’aria come il vento fresco all’imbrunire di una giornata arsa dal sole. Camminiamo uno accanto all’altro e regna una strana sensazione di familiarità. Ognuno di noi si porta dietro la propria storia e la propria ricerca. I piccoli gesti del venditore di spezie sono come una poesia dai versi delicati. I nostri passi tra i vicoli della casbah si perdono nell’eternità di un luogo senza tempo. Se una persona si trovasse a camminare in questo luogo così speciale senza sapere dove si trova, avrebbe non pochi problemi nel comprendere in quale paese stia passeggiando.

L’antica casbah araba oggi viene restaurata da tunisini che fanno a gara a chi mette più maioliche sulle facciate e il barocco sopravvissuto a vari terremoti proietta ancora le sue ombre verso il cielo. Un canale getta le sue acque nel mare, lungo le sue sponde capitani e marinai partono per lunghi giorni di pesca in acque lontane. Sulla terra ferma alcune donne rimangono a casa a cucinare cous cous di pesce, mentre le suore di clausura preparano deliziosi dolci di mandorle. Per i vicoli del vecchio centro a volte i marinai vendono hashish o erba e perdendosi per le stradine si possono raggiungere capolavori arabo-normanni del tutto trascurati o bronzi greci dalla bellezza senza tempo. Questo posto non è un sogno né una visione estatica, ha un nome e tutti possono trovarlo, basta prendere l’autostrada Palermo-Trapani e poi proseguire per Mazara del Vallo.

La cittadina siciliana, che fu la prima a essere conquistata dagli arabi nell’anno 827 e conta oggi il 15% di abitanti di religione musulmana, ha una delle flotte di pesca più importanti in Italia. Gli islamici vi rimasero per molto tempo anche dopo la conquista della città da parte dei normanni nel 1072. Solamente quando l’imperatore Federico II, nel 1216 decise di trasferire tutti i maomettani della città in Puglia, la comunità si estinse.

I primi tunisini tornarono negli anni settanta del Novecento e sbarcarono clandestinamente sulle coste mazaresi, nascondendosi nei casolari sparsi nelle tenute agricole. Considerato il bisogno di manodopera nel settore della pesca, lavoro duro che gli italiani non volevano più fare, la comunità è cresciuta giorno dopo giorno. La loro presenza è oggi così importatane che circa la metà degli equipaggi degli oltre 350 pescherecci locali è di origine tunisina.

Un tempo, la maggior parte degli imbarcati magrebini lavorava in nero e percepiva uno stipendio più basso rispetto a quello dei colleghi italiani, non poteva usufruire dei diritti riguardanti l’indennità del fermo biologico, degli assegni familiari e dei contributi per il raggiungimento della pensione. Oggi le cose sono mutate, i tunisini, non solamente usufruiscono degli stessi diritti e doveri dei cittadini italiani, ma sono inseriti nel tessuto sociale e politico della cittadina. La maggior parte dei musulmani vive nel centro storico, proprio in quelle zone dove un tempo vivevano i loro antenati. Sempre nel centro cittadino esiste la moschea locale, una delle poche in Italia dove si chiama alla preghiera cinque volte al giorno con il tradizionale canto del muezzin.

Un altro abitante della città che merita di essere conosciuto è il satiro danzante.  Nel marzo del 1998 un peschereccio mazarese, recuperò nelle acque del canale di Sicilia, a circa 480 metri di profondità, una scultura bronzea alta due metri dal peso di oltre 96 kg. Il Satiro oggi è ospitato all’interno della Chiesa sconsacrata di Sant’Egidio (1424). Si tratta di un esempio raro di statuaria bronzea greca. Il Satiro è colto nel momento dell’estasi della danza orgiastica e secondo gli archeologi «l’abbandono del capo, la chioma fluente, le labbra socchiuse, la torsione del busto fanno pensare al delirio della danza vorticosa, sommata all’eccitazione del bere, in cui il danzatore andava in trance, fissando la pigna sul tirso e ruotando intorno a sé stesso fino alla perdita dei sensi».

Dopo essere andati a trovare il Satiro ci perdiamo e camminiamo senza meta arrivando davanti alla chiesa di San Niccolò regale, gioiello arabo-normanno che si affaccia sul porto canale. Difficile non sedersi sui suoi scalini semi abbandonati a parlare con i marinai tunisini che chiacchierano tra loro di mare e vita vissuta. In alcuni momenti è facile chiudere gli occhi e tornare indietro di secoli. Le voci lontane parlano di spezie, pesca, droghe, filosofia e religione. L’energia di allora mormora attraverso le pietre dei monumenti e i volti degli abitanti. I mazaresi cristiani, quelli atei e i loro compaesani musulmani hanno scolpito nel viso la splendida storia della loro città.

Arriva l’imbrunire e ci fermiamo nell’alimentari di un vecchio cristiano e compriamo capperi, fichi secchi, fave sgusciate, fiori essiccati di fichi d’india, uvetta e carrube. Il muezzin canta e noi ci immergiamo nella nostra ultima visita, lo splendido convento barocco di San Francesco, riaperto  da don Nicola, un prete coraggioso che dice messa nella chiesa, apre le porte del chiostro ai turisti e ospita un centro islamico nelle celle che un tempo furono dei monaci. Cala il sole, ci guardiamo negli occhi e ci chiediamo come definiremmo questa splendida città. Esce all’unisono una sola parola: Mediterraneo.

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