Nicola Fano
Un libro di Skira dietro le quinte di un maestro

Il teatro di piombo

Giorgio Strehler mise in scena la “Tempesta“ di Shakespeare all'inizio del 1978 proprio durante la prigionia di Moro. La pubblicazione del diario di quel lavoro, dimostra come la realtà riuscì a invadere il palcoscenico. Trasformandolo

Nel 1978 Giorgio Strehler mise in scena quello che probabilmente è lo spettacolo più bello della sua maturità: La tempesta di Shakespeare nella splendida traduzione di Agostino Lombardo. Lo spettacolo (in scena Tino Carraro faceva Prospero e Giulia Lazzarini volteggiava nell’aria, tirata su e giù da una solida corda, come Ariel) debuttò a Milano all’inizio dell’estate ma le prove iniziarono il 6 marzo di quell’anno.

Strehler era consapevole della propria grandezza. Forse c’era anche molta vanità in questo suo atteggiamento, ma anche molta concretezza: Strehler sapeva che uno dei problemi millenari del teatro era l’assenza di storicizzazione; quindi si poneva sempre il problema di testimoniare il proprio lavoro. Nel caso delle prove della Tempesta, volle accanto alla compagnia un testimone professionale, Ettore Gaipa, al quale fu attribuito il compito di stilare un diario di lavoro. Giorno per giorno, scena per scena, battuta per battuta, sospiro per sospiro, Gaipa annotò tutto: i suoi diari ora sono un libro prezioso, a tanti anni di distanza, Il metodo Strehler, appena pubblicato da Skira (167 pagine per ben 24 euro, a cura di Stella Casiraghi). Annotate le date perché in esse si nasconde il meraviglioso segreto di questo libro: le prove iniziarono il 6 marzo e andarono avanti fino al debutto del 28 giugno al Lirico.

«Aldo Moro è stato rapito stamattina. È stato proclamato uno sciopero generale, la prova è stata sospesa. Proprio ieri Giorgio parlava dell’impotenza dell’arte, dell’impotenza del teatro a mutare e rendere migliore la società, riferendosi alla simbologia di Prospero che abiura la sua magia». Questo è sostanzialmente l’unico riferimento (salvo qualche riga nelle note del 9 maggio, giorno del ritrovamento del cadavere del presidente della Dc) a uno degli eventi più drammatici della storia d’Italia capitato proprio nel cuore della gestazione del progetto strehleriano, il 16 marzo. Chi c’era, all’epoca, sa che fu un trauma perché fu un evento tutto sommato inatteso: l’escalation di sangue delle Brigate rosse non lasciava supporre la loro capacità di entrare nel cuore dello Stato per strapparlo. E invece quella mattina del 16 marzo l’Italia misurò la propria impotenza. Non soltanto “a rendere migliore la società”, come commentò appunto Strehler, ma anche solo mandare avanti il proprio cuore e le proprie speranze. Ciò che poco si è analizzato di quel tempo orribile è come esso abbia messo una pietra sulle spinte sociali che puntavano a una trasformazione dolce verso una modernità che l’Italia non ha mai vissuto. Finendo per scoprirsi post-moderna tutto d’un tratto, una quindicina d’anni dopo il rapimento Moro, senza essere passata dal via. Dalla modernità, appunto.

Questo libro è prezioso proprio perché testimonia in diretta questa impotenza. Lo spettacolo memorabile e dolente che ne venne fuori aveva proprio questo senso: il dolore di una fine, della caduta di un sogno. Ricordo che la scena forse più forte dello spettacolo (a parte la “tempesta” iniziale che è rimasta negli annali per la sua forza immaginifica) era quella in cui Tino Carraro spezzava un bastone con il quale aveva finto di governare le illusioni della sua isola. Non era un mago che spezzava la bacchetta magica ma un direttore d’orchestra che spaccava in due lo strumento con il quale aveva cercato di dare un senso, un’armonia al caos.

Nel diario di Ettore Gaipa (che fedelmente riporta le ansie, quasi le paure degli attori a fronte della terribile lucidità di Strehler) c’è proprio questo senso di inadeguatezza: nulla può l’arte di fronte non alla violenza, ma di fronte alle perdita di senso comune che significò per noi il rapimento e poi la morte di Aldo Moro. Ed è terribile oggi vedere come quel senso non sia ancora stato ritrovato, a tanti (inutili) anni di distanza.

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