Alberto Fraccacreta
“Giudizio Universale con pause”

A Friedrich Hebbel l’ultima parola

Adelphi pubblica una selezione di brani tratti dai Diari del poeta e drammaturgo romantico tedesco teorico del “pantragismo”, una visione delle cose dell'esistenza di radicale pessimismo. Senza rinunciare tuttavia a considerare l'umorismo come l'«unica nascita assoluta della vita»

Il geniale pianista e poeta Alfred Brendel, nel 2008, decide – capriccio o vista acutissima? – di curare una selezione di brani tratti dai Diari del poeta romantico Friedrich Hebbel, vero coniatore della parola “pantragismo”, col titolo Weltgericht mit Pausen Aus den Tagebüchern (e ora finalmente pubblicata da Adelphi in: F. Hebbel, Giudizio Universale con pause, trad. it. di E. Dell’Anna Ciancia, 166 pagine, 12 euro). Cerchiamo di carpire i segreti di questo affascinante (rivoluzionario?) autore (quasi) dimenticato.

AFORISMI – In tale genere, forse provocatoriamente involontario, e tuttavia giudicato dall’autore di minore importanza rispetto al “lavoro” del teatro drammatico, Hebbel anticipa quell’arguzia, quella brevitas folgorante tipica di chi, al contrario, ha fatto dell’aforisma la propria vocazione letteraria: mi riferisco al solito Nietzsche e a Emil Cioran (“gemelli diversi” del Nostro). La predilezione per l’umorismo quale «unica nascita assoluta della vita», la dialettica negativa che riduce il Dasein al dato puramente fisiologico («La filosofia è una superiore patologia», si ri­cordi a questo proposito il Nietzsche di Ecce homo), il gusto inquisitorio del paradossale («“Io resto fedele a me stesso!”. È proprio questo il tuo guaio; vedi di esserti in­fedele una buona volta»), sgombrano la via a un “nichilismo europeo” pre-decadente («viviamo in tempi di Giudizio Universale, di quello muto, però, in cui le cose crollano da sole») che dimostra essere, alternativamente, scettico di sé («Anche il Giudizio Universale ha le sue pause»), freudiano ante litteram («Gli stati morbosi, del resto, sono più vicini al Vero che non quelli cosiddetti sani») e sarcastico-asfittico («In un certo senso ammazzare una persona rafforza di più il carattere che non tagliarle i calli»). Non male, anzi: malissimo.

VITA (STRA)ORDINARIA – L’aneddotica è, certamente, uno degli “stati” della prosa più interessanti (e fiorenti) degli ultimi decenni. Cioran, appunto, ne fu un vero e proprio cultore: le sue opere sono disseminate di episodi di vita quotidiana scetticamente uniti e divisi tra l’irreparabile e il faceto. Hebbel, anche su questo punto, figura come anticipatore accidentale, presagante motteggiatore che non perde terreno rispetto ai (non voluti) adepti. Si passa dalla pura constatazione delle persone bizzarre che s’incontrano per strada («Un mendicante grasso», «Una servetta che sotto l’ombrello porta un ombrello») all’osservazione funesta di situazioni strampalate («Un bambino che chiede alla madre di smetterla di piangere», «Un tale sta suonando il violino: lo frustano sul sedere e lui, invece di gridare, suona»), fino all’arrembante scorazzare nel campo aperto del cinismo da tragedia domestica («Un bimbetto col viso raggiante: “Oggi non devo andare a scuola – batte le manine – perché oggi seppelliscono la mamma»). Hebbel annota con metodico fervore questi accadimenti fuorvianti, queste mostruosità silenti, come per tenere in grembo una realtà comprovata, ben più ironica e crudele del suo stesso teatro.

SOGNI Basta trascriverne uno (che, in verità, sono due). «Giacevo in una palude nudo e intirizzito. Alcune persone passavano, mi schernivano e mi sputavano addosso. Questo mi andava bene. Ma ne arrivavano anche altre, che mi tendevano la mano e volevano tirarmi fuori. Questo pungolava la mia rabbia, mi ributtavo indietro digrignando i denti e opponevo resistenza. “Può bastare?” fu il mio ultimo pensiero che si fuse col pensiero di Dio. Su un colle erano sparse dappertutto lapidi e tombe, una terrificante luce scialba illuminava il luogo, era un colle presso Heidelberg, io danzavo con altri sopra i sepolcri e gridavo a qualcuno: sta’ attento, spesso si sprofonda all’improvviso in una tomba». Stupisce il lettore la franchezza nell’ammissione di quello che Cioran definisce il «bisogno fisico di disonore»: rimbaldiano nell’onirismo pervicace e baudelairiano nel discredito e nei suoi profumi. Sempre ante litteram.

PANTRAGISMO – La Weltanschauung del pensiero teatrale emerge (come potrebbe essere diversamente?) anche nel Giudizio. Tra le annotazioni di genere, si nota un’incondizionata sfiducia nell’altro e nell’Altro («“Inventare un cannone, grande quanto basta per caricarvi la Terra e spararla in faccia a Dio”»), un’adagiarsi al nonsense di corpi ciondolanti («La faccia del mio barbiere: un cetriolo cosparso di zucchero»), che è poi viva ripugnanza del prossimo e delle sue tare («Cadaveri che mostrano i denti»). Questo elogio narcisistico del cosiddetto “pantragismo”, di una visione cioè delle cose che affonda le radici nel pessimismo radicale di stampo schopenhaueriano (e leopardiano), pur possedendo un qualche fondamento filosofico, certifica l’onnipresenza dell’ingiustizia, tutta moderna, verso gli innegabili aspetti “positivi” che l’esi­stenza serba. La miopia spirituale che ne consegue («Mi sento come se avessi vomitato il mondo e ora volessi ringoiarlo») chiude il cerchio liminare di un uomo forse prigioniero, come tanti artisti e pensatori, dell’illusoria ribalta della Morte provocata da un’aristocrazia intellettuale («La massa non fa progressi») malsicura e doppiamente mascherante nello smascherare il vizio umano. Eppure in cotanta Finsternis resta una luce di speranza (ottocentesca) nel verbo che ancora riesce a nominare nel breve battito di una poesia la Natura e i suoi misteri: «Strappare all’eco l’ultima parola».

 

 

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