Nicola Fano
Parla l'ad di "Musica per Roma”

Modello Fuortes

L'Auditorium ha fatto delle arti una risorsa. Come? È un sistema esportabile? Lo abbiamo chiesto a Carlo Fuortes, artefice del successo. «La cultura è una forma di welfare come la sanità o l’istruzione. Ma serve legittimità sociale». Se Marino l'ascoltasse...

Chiamiamolo “modello Roma per la cultura”. Che non è quello del Campidoglio  (ché anzi è ancora molto ballerino…), non è quello del Teatro di Roma né quello del Teatro dell’Opera: è il Modello Auditorium. Oltre il 60% di autofinanziamento mediante vendita di biglietti e servizi. E solo il resto sostegno pubblico (poco Stato e molto gli Enti Locali). Nel complesso, per numeri, qualità, diversificazione di proposte e successo, un caso unico non solo in Italia (ché ci vorrebbe poco, purtroppo…) ma nel mondo. Qualche giorno fa, a fronte delle sacrosante proteste delle associazioni culturali romane che lamentano una perdurante sordità da parte delle istituzioni, m’è tornato in mente questo “modello Roma per la cultura”. Che dal 2003, lungo le perigliose navigazioni del duo Veltroni-Alemanno, ha un nome e un cognome: Carlo Fuortes. Che di Musica per Roma (la Fondazione che gestisce l’Auditorium di Roma) è amministratore delegato e ideologo. Perché le ideologie – per fortuna – esistono, anche se sono diverse da quelle del passato (si entra nello studio di Fuortes e si resta ammirati da una splendida scultura di Malevic, per dire…). E così non restava che andare alla fonte dell’ideologia Fuortes per capire quale potrebbe essere una possibile linea di sviluppo della cultura a Roma.

carlo fuortesAllora, Fuortes, posto che la cultura è un bene comune da garantire e promuovere, come si fa a trasformarla in una risorsa (anche) economica come avete fatto voi di “Musica per Roma”?

Credo che uno dei motivi di successo dell’Auditorium sia stato quello di pensare alla cultura in un modo non tradizionale, cioè non come fanno tutte le istituzioni che si occupano di spettacoli dal vivo seguendo quattro direttrici consuete: teatro di prosa, musica lirica, danza classica e musica classica. Non solo in Italia ma in tutto il mondo l’offerta culturale legata allo spettacolo dal vivo si muove su queste quattro direttrici. Che sono le stesse dalla fine dell’Ottocento e che forse hanno esaurito la loro forza e le loro specificità nel corso del Novecento. Chi fa spettacolo dal vivo produce teatro di prosa, opere liriche, spettacoli di danza classica o concerti di musica sinfonica. Noi ci siamo posti l’obiettivo di rompere gli steccati.

Vuol dire che il vostro modello culturale ha successo perché è interdisciplinare, mescola i linguaggi e in questo modo è più vicino alla realtà?

Sicuramente ci siamo posti il problema di rispecchiare il nostro tempo. I risultati ci hanno dato ragione. Ma il fatto non è solo questo. Seguendo il nostro modello abbiamo ottenuto una “legittimazione sociale” che altre istituzioni non hanno.

Traduco: sono gli spettatori (o per meglio dire i cittadini nel loro complesso) ad attribuire una “funzione culturale” all’Auditorium. È passata la linea secondo la quale «all’Auditorium si fa cultura». E questo vi dà la possibilità di azzardare proposte fuori dal comune ma anche di chiedere (e ottenere) finanziamenti pubblici.

È così. D’altra parte il nostro credo sia l’unico posto al mondo dove si mescolano tali e tante proposte differenti: dai concerti alle lezioni di storia, dal teatro circo alle rassegne di cultura gastronomica, dal jazz alla musica classica tanto per fare solo qualche esempio. In ogni caso, il nostro obiettivo è rompere i generi. Ed è proprio questa commistione di linguaggi la chiave del nostro successo.

Lei ritiene che lo Stato debba finanziare la cultura?

Assolutamente sì: succede così in tutto il mondo, sia pure in modi diversi. Nell’Europa continentale lo Stato interviene in modo diretto a sostegno della cultura: la cultura è e deve essere una forma di welfare in tutto e per tutto analoga alla sanità, all’istruzione. Ma anche negli Stati Uniti o in Canada lo Stato sostiene la cultura: se un privato fa un donazione di un milione di dollari, poniamo, al Metropolitan, in realtà settecentomila li mette il privato e trecentomila li mette lo Stato. L’unica differenza è che negli Stati Uniti è il mercato a indirizzare il sostegno pubblico, mentre qui da noi è la Stato a stabilire i criteri.

Ecco un intoppo: i criteri. Ossia: stabilire chi ha diritto a entrare nella dinamica dei finanziamenti pubblici e chi no…

Non solo. Io credo che il nodo vero sia un altro. Ed è nel meccanismo che, di fatto, trasforma il finanziamento pubblico in una copertura del deficit. Al punto che, in teoria, se un direttore di museo un anno ottiene molti finanziamenti privati o vende molti biglietti, l’anno successivo vedrà ridotto il suo contributo pubblico. E questo meccanismo fa sì che i responsabili delle istituzioni non siano molto motivati a trovare nuovi canali di autofinanziamento.

Eppure per anni si è ripetuto che la cultura non deve essere finanziata dallo Stato…

È il problema della “legittimazione sociale” di cui parlavo prima. Bisogna ottenere riconoscibilità culturale con i fatti, per battere questo fenomeno.

Insomma, bisogna fare cultura. Ma ci sono molti che vorrebbero e forse potrebbero farla, però non hanno strumenti (sotto forma di luoghi e denari). L’ultima domanda è conseguente: ritiene che il vostro modello culturale sia esportabile?

In linea di principio il nostro modello è esportabile: mi riferisco alla necessità di mescolare i linguaggi e superare la barriera tra consumo e cultura (nulla è commerciale o culturale a prescindere…). Ma mi rendo che il nostro modello non è esportabile nelle nostre dimensioni. Ripeto: sono i numeri a dire che l’Auditorium rappresenta un caso unico al mondo.

* * *

Fin qui Fuortes. Che il modello Auditorium sia unico, non ci sono dubbi; ma forse si può adottarne i principi. Bisognerebbe che qualcuno lo dicesse al sindaco Marino. Fuortes lo avrà fatto sicuramente, ma il sindaco avrà capito? Nelle prossime settimane l’amministrazione capitolina deve nominare i nuovi vertici di Teatro di Roma e Teatro dell’Opera: speriamo bene!

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