Andrea Carraro
Fenomenologia di Lou Reed

L’esperienza del Male

Otto settimane di elettrochoc, volute dai genitori, per il manifestarsi delle prime inclinazioni omosessuali. Come poteva non odiare, scandalizzare, alimentare la rivolta il poeta del rock che più di tutti ha praticato l'interdisciplinarietà delle arti? Anche con leggerezza...

È morto Lou Reed. È morto il poeta del rock. La notizia è volata sul web, in tivù e oggi è sulla bocca di tutti. «Hai visto, Andrea, è morto Lou, e adesso?…», mi ha detto al telefono un amico sconsolato quasi col nodo in gola. C’è una commozione generale, come sempre però in questi casi non del tutto sincera. Perché Lou Reed non era amato se non da una minoranza. Perché Lou Reed scandalizzava, diciamolo chiaro, e quando ti capitava di parlarne, c’era sempre quello che alzava il sopracciglio lamentando la sua amoralità, il suo altero distacco perfino verso coloro che lo andavano a sentire ai concerti, per non parlare dei giornalisti che provavano a intervistarlo vincendo il suo muro di ostile, finanche insolente, afasia. Non era amato per come ragionava, per come aveva vissuto, per come parlava, nelle sue canzoni, del sesso (promiscuo, omosessuale, transgender ante litteram, mercenario) e della droga, per i suoi buchi (simulati e un paio di volte veri) sul palco durante i concerti degli anni 70. «Chissà quanti poveri ragazzi sono diventati tossici grazie a lui e alla sua Heroin!» – ti dicevano con l’occhio malevolo che quasi ti accusava di complicità perché tu lo ascoltavi.

Lou aveva sempre sofferto di non essere amato dalla massa (specie giovanile), ma in qualche modo, per una delle molteplici contraddizioni di cui si nutriva la sua arte, se ne faceva anche un vanto. «Io scrivo le mie canzoni per un pubblico adulto e colto, non per i ragazzini!» – soleva dire quando lo accusavano di essere amorale e diseducativo. «Se di eroina ne parla uno scrittore o un poeta – ragionava – tutti s’inchinano, se ne parla un rocker diventa immediatamente un fottuto tossico e uno spacciatore!». In lui convivevano una voglia infantile di successo, di riconoscimento, ma pure un elitario, aristocratico disprezzo verso tutto ciò che poteva anche lontanamente suonare “easy” e consolatorio. Per esempio diceva, malcelando l’invidia che lo rodeva, raccontando degli anni di Trasformer: «Quando io e David [Bowie] salivamo sul palco, per lui era un tripudio, a me mi fischiavano e mi tiravano addosso le siringhe e gli spinelli!». Si lamentava assai anche che la sua musica veniva boicottata dalla radio, ma intanto insisteva a scrivere pezzi scandalosi.

Con Lou Reed se ne va per sempre colui che più di tutti – come ha spiegato bene Nicola Fano nel suo pezzo – ha avvicinato il mondo della letteratura e della poesia con quello del rock, facendo tesoro, e credendo fino in fondo all’interdisciplinarietà delle arti che aveva respirato alla Factory di Andy Warhol. Con Lou Reed se ne va uno dei maggiori artisti della seconda metà del secolo passato che ha segnato con alcune canzoni (Heroin, Walk on the wild side, Caroline says II, Coney Island Baby ecc.) e alcuni album (Velvet Underground & Nico prodotto da Andy Warhol, Berlin, Trasformer ecc.) la storia del rock e non solo del rock. Lo sappiamo, senza Lou Reed tutto il punk e ciò che al punk è seguito non sarebbe esistito in quella forma. Senza gli schiaffi reiterati e le maliose sirene di Heroin, prima di tutto. Senza quella viola stridente di John Cale e quei suoni sgraziati percussivi tribali che miracolosamente si sciolgono in lampi di melodia dolcissima. Senza quei versi che sembrano plasmati nel fuoco di una fonderia, e che urlano la solitudine urbana e la disperazione assoluta dell’uomo contemporaneo, lontano da Dio e da qualunque consolazione, oltre il sollievo estatico della pera, che tutto cancella, e ti avvicina alla morte, come in un rito sacro… senza tutto questo saremmo molto più poveri.

Ma Lou Reed non è solo Heroin. Lou Reed ha raccontato, in tutta la sua opera, l’esperienza multiforme del male e della morte, in una sorta di ininterrotto incubo metropolitano, modernissimo ma pure legato a un primitivismo selvaggio. Lou quell’esperienza del “male” l’aveva sperimentata da subito su di sé, con 8 settimane di sedute di elettrochoc (volute dai genitori) per il manifestarsi delle sue prime inclinazioni omosessuali. Come poteva non odiare? E quell’odio lì, reso vasto e dissonante, lavorato al bulino di un’ispirazione drammatica, votata nelle sue parti migliori a un blues acido e al mélo, diventa la linfa di molti suoi capolavori. La visita di leva suggellò una volta per tutte la sua rivolta, la sua scandalosa alterità. Ci arrivò con l’epatite e fu dichiarato “inabile per problemi psichici”: a parte l’elettrochoc certificato, dichiarò ai medici che non chiedeva di meglio di avere subito un fucile per sparare a chiunque gli capitasse a tiro. Lo riformarono come voleva. Partire per il Vietnam prevedibilmente l’avrebbe ucciso e lo sapeva. Nessun altro meglio di lui lo sapeva.

Lou studia, eccome, non gli costa fatica, l’università se la beve. Nel giugno 1964 si laurea alla Syracuse University’s College of Arts and Sciences col massimo dei voti. Per campare scrive canzonette a ripetizione per una certa etichetta commerciale, la Pickwick Records, che sfrutta a basso costo il suo talento senza neppure immaginare chi realmente fosse quel ragazzetto ebreo vestito senza pretese, quasi sciatto, con la zazzera scura, taciturno e ironico e cinico, come sanno essere certi ebrei newyorchesi. Il passaggio dalla scrittura letteraria alla canzone è stato ovvio e immediato. Aveva ora a disposizione due strumenti – la letteratura, la musica – e non più uno soltanto (la scrittura), per trovare quello che cercava. I suoi migliori testi sono dei microracconti inseriti in qualche accordo acconcio di chitarra elettrica, che Lou maneggia come una terza mano. Bastano due o tre accordi per scrivere una canzone, diceva spesso, se ne fai anche uno soltanto di più diventa jazz.

Quando conobbe John Cale (musicista colto, cresciuto nell’avanguardia) Heroin trova la sua forma definitiva: quella che occupa il numero 7 nello storico album warholiano della fallica Banana gialla: Velvet Underground & Nico. Vanno a vivere nella stessa casa, Lou e John… Il loro fu un rapporto artistico intenso (uno dei più fruttuosi sodalizi nella storia del rock), ma con John – come con tutti – Lou, sotto il giogo del suo perfido narcisismo che lo portò ineluttabilmente verso una carriera di solista, non riusciva a essere buono e fraterno. Era anzi sospettoso, maligno. Amava la musica dell’amico, ma a tratti la vedeva concorrenziale con la propria, e ingaggiava una sorta di assurda competizione alla quale John non riusciva, malgrado la buona volontà, a sottrarsi.

Fondarono i Velvet Underground. Il chitarrista era Sterling Morrison, la batteria invece veniva suonata da una donna (Maureen Tucker). Non è che andassero a ruba (niente a che vedere con altri gruppi che si formarono al quel tempo), però qualcuno capitò una sera in uno dei locali dove suonavano al Village e ne restò conquistato, e quel qualcuno non era uno qualunque, era Andy Warhol. Che li fece lavorare alla sua Factory, dove il talento di Lou potè trovare tutti gli alimenti di cui aveva bisogno: la cultura cosmopolita soprattutto, l’interdisciplinarietà artistica, il sesso promiscuo, la droga. Ed è quell’ambiente fecondo e brillante che Lou immortalerà nel catalogo di Walk on the wide side che diventerà immediatamente un grande successo commerciale, l’unico della sua carriera. Un ennesimo capolavoro – che merita di concludere questa riflessione a caldo ancora sotto il segno della commozione – una canzone solo in apparenza semplice, che porta con sé un carico trasgressivo pesantissimo: la condizione dei diversi sessuali nell’America bigotta degli anni Sessanta, con un repertorio di “pompini”, di culi venduti a destra e a manca, di speed iniettato in vena ecc. Un carico pesante, si diceva, ma anche leggero come una piuma… La leggerezza è nel motivetto orecchiabile della canzone, in quei versi cadenzati dalle rime perfette che presto dilagarono nelle radio di tutto il mondo.

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