Sandra Petrignani
Assegnato il premio Neri Pozza

Diario di una giurata

Quali rovelli vive chi deve decretare la vittoria o la sconfitta d'uno scrittore? Sandra Petrignani, giurata d'un premio intitolato a un grande editore, racconta la sua esperienza. E ci spiega perché ha vinto Marco Montemarano

Marguerite Duras pensava che essere fra i giurati di un premio letterario fosse ingiusto e prepotente. Per questo si dimise dopo pochi anni dalla giuria del prestigioso Prix Médicis negli anni ’60. Giudicare i libri degli altri le sembrava un insopportabile sopruso. Ho pensato parecchio a questa sua posizione, radicale e paradossale come era sempre lei nelle dichiarazioni pubbliche, durante i giorni scorsi. Giorni da giurata, appunto, in un nuovo premio intitolato al fondatore della casa editrice omonima, Neri Pozza, e destinato a incoronare un’opera inedita di scrittori noti o sconosciuti, non necessariamente giovani, purché in lingua italiana e non di genere.

Quando mi erano arrivati i testi dei dodici finalisti non avevo avuto molti dubbi nello scartarne almeno cinque. E non mi sentivo addosso troppa responsabilità ad attribuire voti da 1 a 10 agli altri sette: i miei giudizi si sarebbero comunque dovuti confrontare con quelli di altri giurati e il mio margine di errore aveva ampie chance di venire corretto strada facendo. I dolori sono cominciati alla riunione milanese, quando dovevamo comporre la cinquina. Eravamo tutti e sette (il direttore editoriale della Neri Pozza Giuseppe Russo, due agenti letterari, Luigi Bernabò e Marco Vigevani, lo scrittore di viaggio, ex inviato di guerra, giornalista culturale Stefano Malatesta, due critici e scrittori, Francesco Durante e Silvio Perrella, e io) seduti intorno a un tavolo ovale a dichiarare i voti e a discutere. Vedevo subito cadere uno dei miei “candidati” (piaceva solo a me pur fra molti dubbi), ma per fortuna sugli altri sei nomi ci trovavamo d’accordo. E già. Il problema è che in una cinquina non ce ne puoi pigiare sei, di autori: devono essere irrimediabilmente cinque! Il sesto piaceva molto a molti di noi, la maggior parte in realtà, ma con uguale sicurezza non ci convinceva come possibile vincitore. Gli riconoscevamo una capacità immaginifica prodigiosa, un’innovazione linguistica rara, un gran carattere, ma uno scrittore è fatto anche di disciplina, abilità nel costruire una storia, coerenza interna. Davide Morganti, così si chiama il primo degli esclusi, manca di tutto questo, è un vulcano in piena e non sai dove ricadranno i lapilli. A volte anche fuori dalla storia che scrive…. Come si fa? Avrebbe bisogno di un suo Ezra Pound, il poeta che che indicò al giovane T.S.Eliot come tagliare e riscrivere The Waste Land, e in effetti il suo romanzo, Consonante K, è una sorta di Terra desolata in prosa. Così Morganti è stato sacrificato e insieme salvato: subito fu eletto fra noi un Pound deciso ad assumersi il compito nella persona di Francesco Durante, perché Russo si dichiarava disposto a pubblicare Consonante K una volta pronto nella versione rilavorata.

Ecco un’altra particolarità di questo Premio che mi è piaciuta: tutti e cinque i finalisti (almeno per questa prima edizione) verranno pubblicati, con buona pace di Duras e dei suoi mal di pancia per le ingiustizie commesse dalle giurie. Ora veniva fuori che persino un escluso aveva il suo premio nella pubblicazione. Che dire? Sono partita tranquillissima per Vicenza, dove «nella magnifica cornice» del palladiano Teatro Olimpico, si sarebbe svolta, il 3 ottobre, la proclamazione del vincitore. A Vicenza, perché in quella splendida città era nato Neri Pozza (lì fondò la casa editrice nel 1946) e di Vicenza era uno dei suoi primi autori, quel Goffredo Parise che più avanti nel tempo lo stesso Neri si permise di criticare perché aveva ceduto, a suo avviso, a una certa facilità commerciale. (Gli altri erano gente come Gadda, Montale, Buzzati, Cardarelli…)

Ma dunque a Vicenza stiamo per due giorni a contatto, giurati e autori in gara, li ascoltiamo descrivere i loro romanzi, li vediamo cercare di mascherare l’ansia, fare amicizia malgrado la sfida in corso. Sono tutti e cinque simpaticissimi, dal giovane Alessio Arena, musicista napoletano che vive a Barcellona, accompagnato da un padre charmant che assomiglia a Anthony Hopkins, alla graziosissima Nóvita Amadei alla quale due genitori fantasiosi hanno inventato un nome che significa “nuova età”; dalla poetessa – apprezzatissima da Giovanni Raboni, ex attrice di teatro dallo sguardo malinconico – Wanda Marasco alla già affermata scrittrice per l’infanzia Angela Nanetti che ha occhi celesti celesti e acume mordace, a Marco Montemarano, che risulterà poi il vincitore, ma per tutto il tempo il più convinto di perdere.

Come pensate che si senta una povera giurata che ha fatto in tempo ad affezionarsi a tutti e cinque i concorrenti, immedesimandosi nelle loro aspettative? (È vero, saranno tutti pubblicati entro i prossimi 24 mesi, che è poi quello che vuole un autore, ma non è facile perdere per un soffio un premio di 25 mila euro e l’immediata realizzazione di un sogno). Così, mentre sulla lavagna, montata dentro il Teatro Olimpico, scorrevano i nostri voti che modificavano di volta in volta la graduatoria facendo sussultare i finalisti, io ripensavo ai loro bei romanzi e desideravo arrivassero tutti primi: La ricchezza (effettivo vincitore) di Montemarano, storia della falsa prospettiva in cui uno avvolge il racconto della sua vita; La letteratura Tamil a Napoli di Arena, intreccio favoloso e insieme realistico di diverse tradizioni letterarie, religiose, esistenziali in una Napoli sotterranea ed esplosiva; Dentro c’è una strada per Parigi di Amadei, ritratto di solitudini femminili che ridisegnano la mappa delle relazioni di un nuovo codice amoroso fra le persone; Il genio dell’abbandono di Marasco, dedicato allo scultore Vincenzo Gemito con un’audace reinvenzione del dialetto napoletano; Il bambino di Budrio, di Nanetti, romanzo storico su un’infanzia negata in tempi in cui non si riconoscevano ai bambini i diritti di oggi, ma che oggi tornano a essere minacciati.

Va bene, il vincitore non poteva essere che uno. Il migliore? Credo sinceramente di sì, nel senso che fra i cinque La ricchezza è sembrato il più risolto, in grado di uscire subito in libreria a novembre come voleva l’editore. Io ne ho amato la scrittura calma e sicura, direi classica, la vicenda complessa di rapporti difficili fra fratelli, fra amici, fra innamorati in anni lunghi che vanno dai Settanta a oggi in una bella prospettiva di evoluzione e svelamenti dalla giovinezza all’età adulta. E gli altri autori si prenderanno un pò di tempo per dare ai loro romanzi quella piccola perfezione cui ogni scrittore che si rispetti aspira.

I giurati, invece, in attesa della prossima edizione, continueranno a condividere il disagio che denunciava Duras, ma pur sempre soddisfatti di aver pescato fra i tanti (circa 1800 sono stati i manoscritti inviati al premio e sottoposti a una prima drastica scrematura) i cinque, anzi sei autori, che davvero meritano di essere letti.

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