Alessandro Boschi
Visioni contromano

Buonisti anni ’70

"Anni felici", il nuovo film di Daniele Luchetti, ha una scrittura fin troppo agile e dà sempre la sensazione di rimanere in superficie. E alla fine si perde nelle contraddizioni dell'Italia del 1974. Senza mordere...

Che bel titolo sarebbe stato quello scelto da Daniele Luchetti per il suo ultimo film: Storia mitologica della mia famiglia. Invece, dopo una riflessione con la produzione (Cattleya e Rai Cinema), il regista si è dovuto arrendere, o meglio, si è trovato d’accordo con il suggerimento di usare Anni felici, meno criptico, pensa tu, e più facile da ricordare. Probabilmente sarebbe stato anche un film migliore, chissà. Quello che è certo è che i film del regista romano lasciano sempre una piacevole fragranza, che però dopo un po’ svanisce e non torna più, o torna molto raramente.

Anni felici è la storia di una famiglia vista attraverso lo sguardo del più grandicello dei due figli, Dario. Il quale insieme al fratellino Paolo (figlio di Stefano Calvagna, del quale vi abbiamo in passato narrato le gesta), si trova a dover fare i conti con le discussioni dei genitori, artista indecifrabile lui, moglie gelosa delle di lui modelle lei. La storia si svolge nel 1974, anno del referendum sul divorzio ma non solo. Il 1974 è stato infatti l’anno dell’attentato al treno Italicus, della strage di Piazza della Loggia, dell’uccisione di due attivisti del Msi da parte delle BR e della liberazione di Mario Sossi, rapito sempre dalle Br.  Ora, è evidente che sono tutti avvenimenti dai quali è bene tenere al riparo un bambino, che però nel momento in cui chiede ai litigiosi genitori: “Adesso che c’è la legge sul divorzio, vi lasciate?” diventa leggermente adulto e quindi un po’ più responsabile. Perché anche il punto di vista dei genitori stessi è spesso sollecitato, vuoi dalla deriva omosessuale femminista della madre, vuoi dall’importanza che il padre artista attribuisce al valore sociale delle sue sculture/allestimenti/performance. Peraltro Guido, interpretato da Kim Rossi Stuart, non è mai cattivo come vorrebbe, e la sua arte ne risente. Insomma, in lui, uomo e artista, non c’è passione, e anche per questo che il rapporto con la moglie vive sull’equivoco di una disponibilità data per scontata e in virtù di ciò poi irrimediabilmente perduta.

Anni facili ha una scrittura fin troppo agile, e dà sempre la sensazione di rimanere in superficie. Molti i temi affrontati, forse troppi per poter essere sviscerati e approfonditi. La necessità che uno dei due coniugi liberi l’altro dalla prigione dell’equivoco che li tiene uniti finisce poi, come tutta la pellicola, con l’essere troppo spiegata dalla voce fuori campo (dello stesso Luchetti). Con un finale arricchito dall’escamotage dei filmini in super 8 realizzati da Dario/Daniele (che prefigura il futuro da pubblicitario del regista) e un codino appiccicato piuttosto inutile.

Funziona bene il film quando si concentra sui dialoghi, vivaci, mai banali, e soprattutto sostenuti dalle ottime prove dei protagonisti. La sensazione è che la storia non abbia una direzione precisa, un’anima a cui fare riferimento. Forse Luchetti avrebbe dovuto provare ad andare oltre, come fa il suo protagonista, essere un po’ più cattivo: il film, così, rimane un racconto lieve, con qualche increspatura, che non fa male a nessuno e ti lascia esattamente come ti aveva trovato.

Facebooktwitterlinkedin