Andrea Carraro
A proposito del "Costo della vita"/1

L’Italia dei brutti

Il reportage di Angelo Ferracuti sulla tragedia di Ravenna del 1987 poggia tutto sul profilo antropologico perfetto e inquietante del proprietario della Macnavi, prototipo del piccolo imprenditore italiano volgare e riluttante alle regole

Angelo Ferracuti è uno scrittore marchigiano che seguo con particolare interesse da tanti anni e con il quale ho instaurato anche un bel rapporto di amicizia, sia pure a distanza. Nella prima parte della sua carriera letteraria è stato un autore prevalentemente di fiction (romanzi e racconti): ricordo soltanto lo splendido esordio di racconti “carveriani” Norvegia. Poi, forse saturo di finzione e affamato di realtà, ha cominciato a scrivere libri di reportage e ha finito per dedicarsi in modo praticamente esclusivo a questo genere letterario, parallelamente all’attività di editor di una bella collana di reportage, “Carta bianca” che dirige presso La Ediesse (che ha ospitato anche un mio libro). L’ultima sua fatica è appunto un libro in cui si fondono l’inchiesta e il reportage – Il costo della vitaStoria di una tragedia operaia (Einaudi), già affrontato da Succedeoggi in giugno con la recensione/dialogo ora riproposta in home page – dove ricostruisce una brutta e triste pagina della nostra storia: quando il 13 marzo del 1987 morirono 13 operai nelle stive della nave Elisabetta Montanari  ancorata al porto di Ravenna, asfissiati dalle esalazioni di acido cianidrico.

Leggendo il libro mi sono convinto che questa storia andava certamente raccontata e per raccontarla ci voleva tanto coraggio e tanta pietas, due qualità che Ferracuti ha certamente nel suo dna e che non ha risparmiato in questo lavoro. Sono altrettanto persuaso che una forma mista reportage-romanzo avrebbe giovato al racconto, rendendolo più efficace ed essenziale nella caratterizzazione dei personaggi specie nella prima parte, quella che ricostruisce la vicenda dal punto di vista degli operai morti con interviste ai loro famigliari più stretti. La seconda parte è per me la più felice e incisiva e racconta del modo come il libro è venuto su e soprattutto tratteggia il profilo antropologico perfetto e inquietante di Enzo Arienti, proprietario della Macnavi, “prototipo del piccolo imprenditore italiano, quello con uno stile tutt’altro che elegante, un uomo che il più delle volte è istintivo, rozzo e riluttante alle regole, ma la cui presenza è un classico, qualcosa di connaturato, di etnico nella struttura economica del nostro paese”.

A Ferracuti riesce assai meglio raccontare i “cattivi” o se si vuole i “brutti” (per rimandare a un’intuizione del grande critico Debenedetti) che i “buoni” e “belli”, se mi consentite questa semplificazione marchiana, e in questa qualità è assolutamente moderno, assolutamente figlio del secolo appena trascorso. Ma torniamo alla caratterizzazione dell’Arienti, che pagina dopo pagina, si arricchisce di dettagli sul suo carattere spregiudicato, sui suoi modi arroganti, sprezzanti verso tutti: sindacati, stampa, magistrati, opinione pubblica…  Neanche la galera, i processi, le condanne gli fanno abbassare la cresta. L’autore ricostruisce con puntiglio tutti i momenti topici della sua avventura giudiziaria, riportando per intero una sua eloquente intervista tv del 1987 con Enzo Biagi a soli quattro giorni dalla tragedia in cui mente spudoratamente circa la propria responsabilità sull’accaduto. Si sofferma doverosamente, Ferracuti, sulla sua assenza ai funerali delle vittime, sull’arresto, sulle sue memorie difensive improntate al vittimismo e a una cinica arroganza imprenditoriale.

Un altro momento davvero alto del libro è l’intervista all’anzianissimo cardinal Tonini che durante i funerali delle vittime aveva avuto parole, nell’omelia funebre, di “sdegno quasi incontenibile”, denunciando con vibranti espressioni i veri responsabili di quella sciagura, raccontando “il porto come un posto omertoso, nascosto, infido, oscuro…”. Ferracuti è bravissimo a farci entrare per gradi in questa sezione del racconto, presentando l’antefatto della sua intervista, e cioè i lunghi preliminari telefonici con l’arcivescovo prodigo di raccomandazioni, e infine l’incontro: “Quando intervisto i vecchi per me è inevitabile pensare a quello straordinario monologo di Beckett che è L’ultimo nastro di Krapp. Il krappismo è loro. Quando la vita è troppa e la memoria si disperde. (….) Nei vecchi a volte resta un’epica sola. E poi una parvenza di vita, qualcosa di gestuale, poche parole di un vocabolario archeologico; anche se vivi i loro corpi si avvicinano al mondo dei morti”.

Come si vede, qui l’occhio del narratore è asciutto, lucidissimo. In parallelo, assai opportunamente, a complemento dell’intervista, Ferracuti riporta per intero l’omelia funebre del cardinal Tonini quand’era “un uomo poco più che sessantenne, vigoroso e dal pulpito ammonì solenne, con voce squillante…”  durante la quale alluse agli “uomini e topi”, senza tuttavia conoscere il famoso libro di Steinbeck, come scopre il narratore durante l’intervista sottolineandolo con un pizzico di rispettoso  sarcasmo (che non si sarebbe mai permesso intervistando un parente delle vittime): “Lui mi guardò come se gli avessi parlato di un libro di letteratura caucasica, scritto in georgiano, e rispose senza mezzi termini che non lo aveva letto, non lo conosceva affatto”. Insomma, un libro da leggere assolutamente, per crescere come uomini, e come italiani.

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