Flavia Gasperetti
La nostra inviata al Festivaletteratura

Il Savianismo

Anche Mantova impazzisce per l'autore di "Gomorra": fa la fila, lo cerca, lo applaude. "Vogliono farci sentire tutti ugualmente collusi, ma non è così". Insomma: quando la banalità quotidiana (del bene) diventa rivoluzionaria...

Quando lessi Gomorra, in ritardo, a ridosso dell’uscita del film nelle sale, vivevo in Inghilterra e non sapevo granché del “fenomeno Saviano”, della sua trasformazione in personaggio pubblico e di come si era polarizzata la percezione dell’opinione pubblica nei suoi riguardi. Ricordo però la mia sorpresa quando durante le mie visite a casa scoprivo di conoscere un gran numero di persone che Saviano lo odiavano senza mezzi termini. E intendiamoci, non erano mica affiliati alla Camorra questi che lo odiavano, e non erano nemmeno riconducibili all’area politica che nei confronti dello scrittore ha avuto spesso parole denigratorie, no, erano persone di sinistra con solide basi culturali, spesso miei coetanei.

Mi stupiva moltissimo questa antipatia diffusa che arrivava talvolta a mettere in dubbio l’integrità della sua figura, persino che Gomorra fosse integralmente opera sua. Mi stupiva all’epoca quando di lui conoscevo solo il libro, e ne realizzavo l’importanza, mi stupisce tutt’ora ma mi sono abituata. Sarà per via di tutte quelle apparizioni da Fazio, penso ora; non ho una risposta, solo una vaga intuizione di pancia: c’è qualcosa di Roberto Saviano quando parla in televisione che fa venire l’orticaria, lo sento anche io, ma non so spiegare esattamente cosa sia.

In parte, forse, è la paradossale condizione di partenza, il suo status di martire civile, immolato alla lotta al crimine organizzato. Saviano è un martire civile, e si sente probabilmente un martire civile, la sua oratoria è intrisa di questa consapevolezza. E noi adoriamo i nostri martiri civili, i giudici Falcone e Borsellino, Peppino Impastato. Solo che, mi viene da dire, quando i nostri martiri civili sono vivi, non sappiamo bene come comportarci. Specie se dopo il martirio scrivono altri libri che sono un pochino inferiori al primo, specie se vanno da Fazio e fanno venire l’inspiegabile orticaria.

Io personalmente avevo archiviato la pratica riflettendo sul fatto che molte delle critiche più feroci a Roberto Saviano provenivano proprio da quel ceto medio riflessivo di area progressista che dovrebbe essere, ad intuito, il suo fanbase naturale. Sempre così nel grande mondo della sinistra italiana, mi rispondevo: finisci sempre colpito dal fuoco amico.

 

Questa lunga premessa per dire che dopo aver combattuto con le unghie e con i denti per trovare posto e ascoltare l’intervento di Saviano che ha aperto ieri il Festival di Mantova, io ero poco o nulla interessata a quello che lo scrittore si accingeva a dire, ma molto interessata a osservare il pubblico, il suo numeroso pubblico. Ed ecco il dato che, ritengo, vale la pena rimarcare: io non so che campione di italianità sia rappresentato dal pubblico di Mantova, davvero non lo so, ma questo pubblico ama Roberto Saviano. Non solo ha fatto un’ora di fila nell’afa da risaia cambogiana che ristagna nella città dei Gonzaga per vederlo, ma si è alzato in piedi più volte per applaudilo con calore, pendeva dalle sue labbra ascoltandolo riproporre quelli che sono un po’ i suoi cavalli di battaglia – “Tutto è perduto tranne la parola” era il titolo del suo intervento. Gli argomenti sono un po’ i soliti, certo, Saviano è al suo meglio quando parla di altri giornalisti, testimoni, altri martiri, Christian Poveda, Anna Politkovskayaia, il premio nobel cinese Liu Xiaobo. È al suo meglio perché dal vivo Saviano è un oratore più vivace di quanto non sia in televisione, e perché è convincente nel trasmetterci la propria ammirazione per queste figure. Il problema forse è che il modo in cui lo scrittore articola le proprie riflessioni sembra sempre una risposta ai propri detrattori, anche quando in sala non ce ne sono, anche quando è chiamato a parlar d’altro. I poteri che vogliono toglierti di mezzo cercano prima di tutto di screditarti agli occhi dei tuoi amici, riflette Saviano, parla dei suoi modelli ma sembra parli di se stesso, con un’urgenza che sembra un po’ malriposta in questa cornice, qui tra amici adoranti.

Le parole, ci ricorda Saviano sono importanti. Riconoscerne il ruolo ci permette di farne strumenti di resistenza e condivisione dei saperi ma anche di smascherare le bugie del potere. È una riflessione, un po’ trita se vogliamo, ma che ritrova efficacia quando lo scrittore accenna al fatto che le giustificazioni con cui Berlusconi si difende in aula durante i suoi processi sono ispirate dalla stessa retorica che usano gli inquisiti per affiliazione alla camorra: la magistratura è contro di me, sono imprenditore e come tale agisco, la magistratura mi dipinge come un criminale perché non ha altri mezzi per colpirmi.

La fine dell’evento è stata salutata con un lungo applauso. “Il potere vuole farci pensare che siamo tutti uguali, tutti egualmente collusi, senza speranza di cambiamento, ma non siamo tutti uguali” è il messaggio di Roberto Saviano, e di nuovo sembra che parli di sé, che stia rispondendo ai suoi detrattori, ma è la frase che più muove il pubblico, pubblico che gli perdona tutto proprio perché è questo, forse, che ha bisogno di sentirsi dire, ora più che mai.

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