Pierre Chiartano
Lettera dalla Tunisia

L’islam francescano

Sono i Salafiti: nell'occhio del ciclone in Egitto (dove hanno imparato l'arte del potere) e in Siria (dove flirtano con al Qaeda). Ma in Tunisia rappresentano la parte più povera della società. Lontana anni luce dai Palazzi e dagli intrighi

Cite al Ghazale è un centro della Tunisi meno fortunata, le strade sono male asfaltate, polverose, piene di buche. Quando piove la terra invade le strade, formando dita irregolari di una mano che vuol riprendersi ciò che l’uomo gli ha miseramente tolto: spazio. Cumuli d’immondizia segnano qua e là i confini tra società civile e la terra di nessuno, dove sopravvivere è il mestiere di tutti i giorni. È la città dove viveva ed è morto Mohamed El Brahmi, l’ultima vittima, in ordine di tempo, della battaglia di potere in atto in Tunisia. Dove finti salafiti e veri stranamore cercano di cambiare le carte in tavola nel gioco che deciderà il futuro del paese. Attraversando quelle povere case, quei quartieri fatiscenti, ma alla disperata ricerca di una dignità quotidiana, comprendi la scelta. Quale scelta? Perché sia stato individuato un politico in questo luogo, come vittima sacrificale da porre sull’altare di una “guerra” senza senso per chi dovrà dividere, gestire e vendere le spoglie della rivoluzione dei gelsomini, come fu chiamata da Hillary Clinton. La rivolta contro il dittatore Ben Ali.

Passando accanto a un muro bianco, appena vergato dal verde di una buganvillea, unico elemento di bellezza, in mezzo al corrotto paesaggio urbano, ti accorgi che quei colori vivi contrastano con l’immagine di ciò che resta di un marciapiede. Sarà questo il futuro della Tunisia? La bellezza di un paesaggio mozzafiato, sullo sfondo di un paese dissolto nel pantano del risiko del potere? In questi luoghi dimenticati da tutti i fratelli di Ansar al Sharia vergano i muri di case e negozi con i loro messaggi. “Siamo figli vostri e al vostro servizio” si legge in arabo. Un messaggio diretto alla gente, ma anche al governo: chi decide, chi fa le rivoluzioni sono le persone normali, magari sfortunate come coloro che vivono qui, non la politica. Ora per decreto “amministrativo”, come un ministro aveva affermato, i membri di Ansar sono dei “terroristi”. Loro rispondono parlando a cuore delle persone “siamo figli vostri” voi sapete bene se siamo terroristi o meno. Voi siete le nostre famiglie e i nostri giudici.

La storia, quella scritta dagli uomini e quella disegnata da Dio o dal caso, a seconda dei punti di vista, ci dirà dove sta la verità. Ma girando da queste parti e parlando con la gente comune la sensazione è quella di assistere all’ennesima “menzogna” costruita per far piacere agli interessi dominanti. Un pensiero dominante che puzza di vecchio, ha i colori verdi dei Saud e il sapore europeo del postcolonialismo. A metà agosto Rached Gannouchi era andato in Francia a trattare. Ufficialmente una transizione indolore per la Tunisia. Probabilmente le dimissioni dell’attuale governo. Le elezioni a fine anno. La nomina di Caid Essebsi presidente della Repubblica, lo sblocco di circa 30 miliardi di euro d’investimenti stranieri: la fine della rivoluzione e del grande progetto di Ennahda. L’opposizione ha dato una copertura popolare alle trattative, portando la gente in piazza a chiedere a gran voce le dimissioni del governo della trojka, con il partito a ispirazione islamica in testa.

La gente in piazza. È la cifra di ogni regime change che si rispetti. Il vento solleva una folata di polvere e cartacce, portando via per un attimo il tanfo di fogne intasate cui ti devi abituare – in certi giorni – se vivi a Tunisi e negli arrondisment che la formano. La gente che manifesta al Bardo, quartiere della capitale sede dell’Assemblea costituente, è l’icona della protesta antigovernativa. A dire il vero, sempre meno convinta. Il sette settembre, alle nove della sera, c’erano meno di diecimila persone a tenere alta la bandiera della Tahrir tunisina. E le due povere bambine, figlie di Belaid e Brahmi, erano sul palco protagoniste di una partitura che non comprendevano, non fatta nel loro interesse. Forse scritta altrove. Il sospetto che dietro le legittime richieste di chi vorrebbe mandare a casa Ennahda, ci sia un gioco poco pulito di chi vuol togliere di mano ai tunisini la guida del paese, è sempre più forte anche tra chi fa parte dell’intellighenzia laica e francofila. La narrazione ufficiale vuole la gente in piazza, mentre trattative e ricatti vanno in onda dietro le quinte della politica. Ricatti inenarrabili che parlano di violenze, di bombe, attentati, di Jebel Chaambi. Una storia “ufficiale” che vuole mostrare un paese in ginocchio, immobile e vittima di fronte al radicalismo ignorante. Tutto vero, tranne la reale identità degli attori.

Ma proviamo a raccontare un’altra storia, di quelle che non hanno spazio sui media. Dopo l’assassinio di Chokri Belaid, Tunisi fu invasa da finti barbus-casseur che creavano allarme sociale, frantumavano vetrine, davano fuoco alle automobili e rapinavano i malcapitati. Uno sciopero indetto dallo Jtt – il maggior sindacato tunisino – aveva creato il vuoto, anche nelle forze dell’ordine. C’era un buco nero  a Tunisi che stava ingoiando tranquillità e speranze dei tunisini. Allora scesero in campo i salafiti. Organizzarono il controllo delle strade, spensero gli incendi, arrestarono i finti barbus ladri. “Al vostro servizio” ricordano ora sui muri di cité Gazhale. Al servizio della stabilità del paese non del caos. Certo con la loro idea di islam, di società, di famiglia… Che può anche non piacere. Un’idea che promuovono, come fanno i Testimoni di Geova, e questa forse la loro colpa maggiore. E qui è nata probabilmente anche la leggenda della polizia religiosa. Mentre in Egitto i salafiti si sono fatti movimento, partito politico e hanno imparato le regole del potere, in Tunisia sono “poveri” lontani dalla politica e dalla corruzione. Tutt’altro che violenti. La gente lo sa bene. Certo ci sono anche coloro che in Siria hanno imparato il gioco della guerra, l’uso delle armi, si sono assuefatti alla violenza più cruda e hanno stretto legami pericolosi. Flirtano con quelli di al Qaeda. Sono però una minoranza, da tenere d’occhio, ma non possono diventare la Lettera scarlatta per tutti i salafiti, francescani dell’islam. Il vento torna a soffiare forte, ma la polvere si è diradata. La terra sull’asfalto è diventata dura come la roccia e il cielo terso fa spazio a nuvole basse, bianche come la lana. La via dei padri, ciò che in buona sostanza significa salafismo, non accetta compromessi. Vuole restare immacolata, fuori dal potere, ma nei cuori della gente che ha occhi per vedere e orecchie per sentire.

Qualche tempo fa, tradendo la mia abitudine ad usare solo i mezzi pubblici per viaggiare e muovermi, avevo affittato un auto. Prezzi tunisini: venticinque euro al giorno. Dovevo andare a Ben Arus, sobborgo meridionale della capitale. A El Morouj, ormai vicino alla meta, mi ero perso. Chiedo, mi informo. La gente o mi dava informazioni sbagliate o non aveva tempo per spiegare. Una giovane coppia con un bimbo veramente piccolo si avvicina alla mia auto. Mi spiegano che non è difficile. Poi guardando la mia faccia “obliterata” dalla stanchezza, salgono in macchina e mi accompagnano. Li lascio vicino a una stazione di servizio. Lei veste di scuro ma è simpatica e parla l’inglese. Indossa un paio i guanti neri oltre l’hijab d’ordinanza. Lui ha una barba lunga e i capelli rasati. Non capisce un accidente di quello che dico – anche col mio arabo stentato – ma si sforza di sorridere e indica col braccio ciò che la moglie spiega a voce. Se glielo avessi chiesto mi avrebbero anche ospitato a casa loro. Perché i salafiti sono fatti così. Il sole è ormai basso sull’orizzonte ed è tempo di rientrare.

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