Elisa Campana
Un sogno fatto in Andalusia

Elogio del toro

La corrida è una lotta, una danza oscura con la morte, le cui trame fatali avvinghieranno o il toro o il torero, ed è allora che l’uomo sfida i propri limiti... Ma avete provato mai a vederla con gli occhi dell'animale?

L’Andalusia ricorda il nostro Mezzogiorno, economicamente è una delle zone più povere della penisola spagnola, rurale e arretrata, soffre oggi come ieri la tenaglia soffocante di una crisi che non sembra allentare la propria morsa. Difficile non rivedere la Puglia negli aridi pendii ricoperti di ulivi e muri di pietra a secco, nella calura soffocante di un’estate senza fine e nel bianco accecante delle pareti di calce. E ancora più familiari risuonano alle orecchie le invettive di politici saccenti che accusano la regione di essere un peso sulle spalle di quelle più ricche; alla fin fine, tutto il mondo è paese.

L’Andalusia è, però, anche una terra magica e misteriosa, patria del flamenco, crocevia di popoli e culture, connubio antico di razze e sangue gitano, moro, ebreo e iberico, il cui spirito Federico García Lorca magistralmente consacrò nei suoi versi immortali. “Andalusia, mi ricordo le praterie bordate di cactus…” è il toro che parla, nelle parole del cantante francese Francis Cabrel, e ricorda la sua terra natale, perché è qui che il già fervente spirito taurino spagnolo trova la sua massima espressione, nelle campagne in cui si allevano i toros bravos per le corride del mondo ispanico e nelle plazas de toros di Siviglia, Ronda e Granada, riconosciute tra le più antiche e monumentali.

Ed è proprio il suono del passato che risuona tra gli spalti quando il toro entra nell’arena, rinvigorendo lo spirito guerriero latente che incita l’uomo alla lotta con la bestia, per mostrare in ultimo la propria trionfante superiorità. “Lo acchiapperò, lui e il suo cappello, li farò girare come fossero il sole, stasera la moglie del torero dormirà su entrambi i guanciali” pensa il toro nella canzone. La corrida è infatti una lotta, una danza oscura con la morte, le cui trame fatali avvinghieranno o il toro o il torero, ed è allora che l’uomo sfida la propria mortalità in un rito che si ripete invariato da secoli, esaltando l’effimero dell’esistenza, la precarietà e la tragicità della condizione umana stessa.

Eppure sono molti gli spagnoli che vedono la Fiesta Nacional come una irrazionale e gratuita crudeltà verso gli animali, una violenza intollerabile che mostra il lato più sadico e raccapricciante dell’essere umano, al punto tale che da qualche anno la corrida, tra polemiche e dibattiti più politici che culturali, è stata abolita in Catalogna, e persino Sánchez Ferlosio, uno dei maggiori scrittori spagnoli del secolo, si augura che spariscano i tori una volta per tutte, non per “compasión de los animales, sino por vergüenza de los hombres”.

Ripenso a tutto questo mentre sono nell’arena di una cittadina dimenticata nella campagna andalusa, perché la tauromachia non è solo un business relegato alle esibizioni e alle corride da turisti nelle plazas delle grandi città, ma è uno spettacolo che forma parte integrante del substrato culturale iberico. Per la festa del santo hanno organizzato l’encierro, con la differenza che qui non c’è la messa a morte dell’animale: a turno, un toro entra nell’arena, possente e muscoloso, sembra non sentire l’afa insopportabile di un primo pomeriggio di metà agosto e il toro è lì per dar spettacolo, per far divertire i ragazzi del paese. “Non tremerò di fronte a questo burattino!” continua la canzone. Sono quattro o cinque, in semplici pantaloncini e maglietta,  il loro scopo è di andar il più vicino possibile all’animale, i più audaci lo vogliono colpire, innervosire, perché lui carichi, li rincorra e loro possano poi saltare di corsa la barriera degli spalti mentre il toro incorna rabbioso le lamine che lo dividono dagli spettatori. Scappano e ricevono, fieri, l’applauso del pubblico, degli stessi amici e familiari, perché hanno dato prova di coraggio. E’ bizzarro come l’uomo, persino in un’epoca moderna, quando ormai i riti tribali e di affiliazione al clan sembrano appartenere alle pagine di cronaca nera americana, continui ad avere bisogno di mostrare la propria forza e virilità, sfidare la sorte in un gioco inverosimile di vita e morte. Qual è il senso nel stressare un animale per poi correre via? Qual è la ragione dell’uccidere un animale per ricevere gli applausi della folla entusiasta?

Molti affermano che la corrida sia un arte che solo gli spagnoli possono comprendere, un po’ come il sense of humour degli inglesi per intenderci, ma le corride sono diffuse anche in Sudamerica e nel Sud della Francia, è una manifestazione che ha valicato i confini della penisola iberica. Cos’è allora, affermazione della superiorità della specie? Competitività? Distacco chirurgico dalla sofferenza? “Est-ce que ce monde est sérieux?” termina la canzone, una domanda alla quale non sembra così facile trovare una semplice e univoca risposta.

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