Lidia Lombardi
Sguardo “postumo” sul paese in guerra

La Siria com’era

Memorie di un viaggio di tre anni fa, quando era in atto “l'offensiva del turismo”, risuonano come un requiem. Per una terra crocevia di civiltà, amata e studiata da schiere di visitatori, archeologi e storici. Che oggi possono solo sperare di tornare un giorno a visitarlo liberamente

Questo non è un reportage last minute. Non racconta un viaggio appena fatto, non fotografa un posto mirabile visitato nelle scorse settimane. No, non è il resoconto di esotici luoghi scritto con sapienza e con il palpito di emozioni fresche nella mente, come ha rilanciato con intelligenza Succedeoggi, consapevole dell’appeal intellettuale di un genere giornalistico messo un po’ in disparte (forse perché mancano i grandi viaggiatori?).

Questo è un reportage come dire? virtuale, impossibile, al pari di quelle intriganti interviste che penne blasonate amano fare a grandi uomini da anni se non da secoli morti e sepolti. Potremmo addirittura chiamarlo un reportage postumo, se non ci desse raccapriccio l’idea che non si possa più fare per dipartita, fine, distruzione degli scorci pur amati da milioni di turisti, oppure studiati da schiere di archeologi o di storici. E se non volessimo rinunciare alla speranza che si possa un giorno tornare liberamente nel paese crocevia di civiltà, il paese che impasta Oriente e Occidente, musulmani e cristiani, Gesù e il Grande Saladino, antichi romani e persiani, palestinesi ed ebrei, turchi e inglesi, souk e resort.

soukIl viaggio in Siria, perché di questo si parla qui, lo abbiamo affrontato nell’ottobre del 2010. Dal Sud al Nord, da Damasco ad Aleppo; e dall’Ovest all’Est, dalla mondana Latakia, affacciata sul Mediterraneo, a Palmyra, la città antico romana circondata dal deserto. Seguivamo la carovana del Festival della Seta, una kermesse che si ripeteva ogni anno, fortemente sponsorizzata dalla nomenclatura di Bashar Al Assad, impegnata in quella che chiamammo “offensiva del turismo”, a dire di una “campagna” senza attentati e senza armi, puntando sulla cultura e sulle tradizioni, su quello che univa razze e civiltà. Una verniciata di efficienza e modernità su siti preromani e medievali, a far dimenticare la vergognosa etichetta di Stato-canaglia.

Non passarono neanche sei mesi ed ecco la guerra civile, a rimorchio della primavera araba. Le frontiere divennero saracinesche impenetrabili per i giornalisti. Vietato documentare e raccontare. E gli attentati, le bombe, le morti, il terrore, adesso giunto all’acme dei gas tossici, fecero scappare i turisti. Stop ai tour nelle moschee e nei siti archeologici. Addio all’invidiabile posizione detenuta da Damasco, il sesto posto delle città più visitate al mondo, secondo la hit parade stilata dal New York Times.

MaalulaQual è la prima immagine siriana che affiora nel nostro ricordo? Due cupole sormontate da due croci, due rocce che portano in cima le statue di Cristo e di Maria. È Maalula, città cristiana incassata nella roccia, non distante dalla capitale. L’unica al mondo nella quale si parla l’aramaico, la lingua del Nazareno. Neanche una settimana fa ribelli ed esercito l’hanno presa di mira: bombe e combattimenti, alla faccia dei monasteri e delle chiese. Eppure, anche allora serpeggiavano tensioni inspiegabili. Il rettore di un santuario ci impedì di entrare, a noi cattolici, irritato da una macchina fotografica che pure eravamo pronti a consegnargli. Inutile la pressione gentile della nostra guida, Alisar, una donna sulla sessantina abile a parlare l’italiano e a sbrogliare ogni situazione. Allo stesso modo non ci sapemmo spiegare cosa stesse avvenendo a Ugarit, nel Nord e sul Mare Nostrum, meta di visitatori per essere stata fondata nel terzo millennio prima di Cristo e per mostrare ancora le tavolette istoriate con uno dei primi alfabeti mai conosciuti. All’improvviso, mentre visitavamo i resti del palazzo imperiale, l’ululato di una sirena della polizia squarciò l’aria calda e secca e fummo invitati a salire in fretta sul pullman che ci avrebbe portati a Latakya.

Qui alberghi moderni e lungomare illuminato fino all’alba, con bar e chioschi dove si poteva ordinare e bere anche un doppio whisky, in barba al divieto assoluto di consumare alcool. E infatti a Damasco, nei locali sulla collina arida nonostante a primavera una festa degli alberi imponesse a tutti i siriani di piantare un piccolo tronco, ovunque, anche sulla cosiddetta autostrada Damasco-Aleppo, sulla collina di Damasco, dicevamo, al tavolo i camerieri servivano solo tisane e tè.

aleppoLa capitale sapeva essere lasciva e casta. Nel grande souk le bancarelle di lingerie ostentavano completini da pin up, con piume per coprire pube e i capezzoli. A mezzanotte l’entrata dello Sheraton era popolata da escort in minigonna. Ma nella dorata moschea degli Omayyadi donne e uomini pregavano in settori separati. E il via vai fremeva allo stesso modo davanti alla tomba del Saladino e davanti al sepolcro di Giovanni Battista, in un mirabile sincretismo di fedi. La strada dei seguaci del Salvatore contemplava innumerevoli altre tappe: il santuario di San Maron, eremita vissuto nel IV secolo a.C., venerato dalla Chiesa Cattolica e da quella Ortodossa, fondatore dei Maroniti. Oppure Deir Samaan, il monastero di San Simeone (V secolo) che mostrava a noi attoniti l’arco trionfale, la pietra sulla quale il monaco pregava, la Via Sacra, riservata alle processioni.

Non lontano Aleppo era ancora fiera della sua Cittadella, cinta dalle mura in cima alla collina circondata dal medievale fossato. La porta, la scala lunga come un ponte levatoio evocavano scontri con i Crociati. Ma i giardini dentro i palazzi, zampillanti e freschi, erano di quelli che davvero stregarono Lawrence d’Arabia. Alisar ci portò anche a una festa di nozze, in un albergo centrale. Ma sbirciare fu permesso solo a noi donne. Pranzo e ballo erano vietati agli uomini, tranne che allo sposo. Levandosi il velo la sposa, scollatura alla Rita Hayworth in Gilda, lo avvinghiava in un lento di seduzione, mentre intorno solo occhi femminili guardavano la scena.

moschea degli OmayyadiMatriarcato anche nel cuore del deserto, sulla strada per Palmyra. In un accampamento beduino l’accoglienza sotto la tenda fresca ce la fecero le donne. Prepararono il caffè, si offrirono volentieri alle foto, mostrando la più piccina della famiglia, una treccia fermata dal ciondolo d’oro con la mano di Fatima. A Palmyra tutt’altra aria. Questa era la città di Zenobia, la Cleopatra del Medio Oriente che si ribellò ai Romani e ne pagò il fio con le catene. Templi, vie lastricate come l’Appia e costeggiate da fughe di colonne coi capitelli corinzi dalle quali sbucavano ragazzini in motorino intenti a vendere penne a sfera e paccottiglia. Il fascino di questa Pompei tra oasi e sabbia si scontrava con il kitsch dell’offerta turistica. Al “Beduin corner” le donne cuocevano sulla brace focacce condite con olio e origano. L’Hotel Dedemann sciorinava nella hall tappeti e suppellettili dorate, il Tadamora privilegiava lo stile coloniale. Lo struscio tra le rovine risuonava dei cellulari, facilitati dalla gigantesca antenna piazzata disinvoltamente sulla collina accanto a un castello arabo del XII secolo.

Foto sbiadite di soli tre anni fa. Ora, vuoti gli alberghi, ferme tante missioni di archeologi di ogni parte del mondo. Bombardata la Cittadella di Aleppo, con il gusto per la distruzione che ricorda lo scempio talebano alle statue dei Buddha in Afghanistan. Eppure il governo di Bassar al Assad continua a promuovere il turismo in Siria, che a gennaio del 2011 accoglieva oltre otto milioni di visitatori internazionali (incassando il corrispettivo di oltre 8 miliardi di dollari l’anno) in crescita di oltre il 40% dal 2009 malgrado l’embargo Usa. In una nota del 25 agosto scorso il ministero del Turismo – come segnalato dal magazine online Motherboard – annunciava iniziative per “continuare a fare della Siria una destinazione turistica internazionale”.

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