Silvio Perrella
Tempo di partire

L’arte del viaggio

Vivere è come attraversare un ponte, che sia quello di Brooklyn o quello sull'Oreto a Palermo: occorre andare, rischiando anche di cadere. La riflessione di un critico letterario sui rapporti tra viaggio e scrittura

I rapporti tra il viaggio e la scrittura? È un tema ampio, se non lo si circoscrive si rischia di essere generici. Conviene  dunque partire da se stessi, dalle proprie esperienze. Posso dire di essere un viaggiatore? In parte sì, perché sono attratto dal movimento e non mi scarseggia quella che potremmo chiamare la curiosità di sguardo. In parte no, perché non ho grande dimestichezza con le lingue straniere. Nei miei viaggi il senso della vista si acuisce, non potendo usare del tutto quello dell’udito.

Ma sto andando troppo veloce. Prima bisogna che dica in quale territorio mi sono esercitato a viaggiare, una volta raggiunta l’età della consapevolezza. Si tratta del territorio della letteratura. Si potrebbe dire, un po’ semplificando, che col tempo sia diventato uno studioso di letteratura italiana del Novecento. Ma nel contatto con i libri degli altri ho presto saputo che il solo studio non mi bastava. Dopo averli studiati, un’opera di Calvino, un racconto di Parise o un saggio di La Capria era necessario essenzializzarli. Dovevano trasformarsi in sguardo, erano importante che divenissero orientamenti per andare nel mondo.

È chiaro che il territorio della letteratura  non è (e non va) separato da quello dell’esistenza. Ancor prima di aver letto anche un sola riga, mi ero già confrontato con i segni del mondo. Prima dell’alfabeto scritto ci viene incontro un alfabeto più confuso e meno codificato che ognuno di noi si forgia per capire ciò che ci si para davanti.

In questo senso il mio primo viaggio è consistito nell’attraversare un ponte. A Palermo, dove sono nato alla fine degli anni Cinquanta, abitavamo nella prossimità di un ponte. Sotto ci scorreva il fiume Oreto; un fiume che spesso si riduceva a un rigagnolo. Dal balcone il ponte era osservabile per un buon tratto. Nei dintorni passavano i treni. Un giorno, avrò avuto cinque o sei anni, mia madre mi chiese di andare a comprare un pollo allo spiedo. Il negozio che lo vendeva si trovava subito dopo il ponte. Mi diede i soldi necessari e mi disse: ti guardo dal balcone, vai tranquillo.

Io andai fino a quel negozio attraversando il ponte sul fiume Oreto in entrambe le direzioni. Anche se all’epoca non potevo esserne consapevole, quello fu il mio primo viaggio. Non solo: il ponte divenne nel tempo per me lo stigma della mente. Il ponte come figura della connessione. Ma anche come pericolo del precipizio (solo negli ultimi anni ho cominciato ad interrogare quel frammento misterioso e baluginante di Kafka dove un ponte all’improvviso si ribalta su stesso e lascia precipitare i passanti, precipitando lui stesso).

Ci sono molti modi di viaggiare. Tra questi quello che prediligo è il viaggio di città. Sono stato presto spostato altrove. Ho lasciato Palermo, ed è iniziato un nomadismo subìto e a tratti malinconico. Ma è in quel nomadismo tra Sud e Nord e viceversa che sono diventato quel che sono.

Finché non mi sono ancorato a Napoli. La patria napoletana è stata la mia patria. La patria di un esule che mai potrà aderire fino in fondo a un luogo, ma che quel luogo prova a conoscerlo e a distillarlo dentro di sé come si trattasse di un’opera letteraria. Napoli come palinsesto, come costellazione inconclusa di testi e come ancoraggio dello sguardo. Mi sono dato da fare per leggerla, ho incrociato il mondo scritto e il mondo non scritto della città. E ho provato a darne conto, mettendo al mondo una voce che potesse essere espressione di tutto questo.

Se sei un esule, se hai un patria immaginaria, il tuo viaggio non potrà mai dirsi concluso. Non puoi sottrarti al moto oscillatorio dell’andirivieni. Così Napoli è diventato il luogo in cui tornare. È cominciata  la stagione dei viaggi nel lontano.

Non posso dire di essere diventato un viaggiatore irrefrenabile. Ma qualche volta mi sono spinto così lontano che avrei potuto non tornare più indietro. D’altronde, ovunque vada, la prima domanda che mi scatta dentro è: riuscirò a perdermi compiutamente? Forse in questa domanda c’è nascosta la paura e l’ansia della morte. O forse agisce la nostalgia di quello sguardo che da piccolo ti seguiva mentre attraversavi il ponte, dicendoti con gli occhi di stare tranquillo.

Non so perché quando ho messo piede a New York ho sentito che si trattava di un approdo, quel punto che mancava perché l’insieme degli altri punti formassero una figura compiuta. Ed è stato attraversando a piedi il ponte di Brooklyn che sono stato preso da una vera e propria ebbrezza. Il remoto ponte di Palermo e lo slanciato ponte americano si parlavano tra loro, mi dicevano quel che sono, bisbigliavano i miei desideri e quietavano per un attimo la mia irrequietudine.

Era proprio me che salutava quella statua con la mano alta nell’acquatico spazio circostante; quella statua che ha salutato e accolto le innumerevoli tristezze degli emigranti. Nell’andare, i miei piedi toccavano le doghe di legno che da Manhattan portano dall’altra parte, tutto vibrava di nervosismo e possibilità. Il ponte era sospeso in un vuoto risonante. Ed erano soprattutto i piedi a darmi la sensazione dell’arrivo. Perché sono i piedi il nostro primo mezzo di trasporto. Non c’è aereo treno automobile che tenga. Si conosce solo quando il contatto è diretto, quando la pelle del nostro corpo tocca la pelle delle città, quando un intero cosmo urbano si rivela.

* * *

So che definire una città un cosmo urbano è un po’ una contraddizione in termini. Un cosmo è un organismo che si autorigenera, possiede un elemento interno che gli trasmette energia trasformatrice. Quando parliamo di cosmo parliamo di un elemento naturale, mentre le città sono opera dell’uomo, e in quanto tali sottostanno alle leggi dell’artificio. L’elemento autogeneratore nelle città aspetta le energie sociali dell’umanità. Quando queste energie decrescono anche le città si piegano in due, immalinconendosi.

A questo punto una domanda scatta spontanea: ma tu non ami viaggiare nel territorio proprio della natura? Hai detto sinora che sei partito dalla letteratura cercando di farne proprie le opere e sei poi andato incontro alle città come se si trattasse di opere letterarie, testi complessi e stratificati. Ma quando osservi un cielo stellato, quando la pioggia t’inzuppa il corpo, quando tira il vento e un vulcano erutta, come ti comporti? Sei capace di viaggiare insieme agli elementi non linguistici della natura?

Non solo tra una città e l’altra, ma anche all’interno delle stesse città la natura fa a volte da sfondo, altre volte s’insinua tra casa e casa e tra persona e persona. D’altronde è sempre più difficile dire cosa sia la natura in sé e non è necessario scomodare i filosofi e gli scienziati per esserne consapevoli; basta aprire una pagina dello Zibaldone leopardiano e il tema si dirama in tutte le direzioni possibili.

Tra le città che mi è capitato di frequentare solo New York e Napoli mi hanno suggerito l’idea di un cosmo urbano. Potrei nominare anche Rio, ma a Rio la natura ha una tale evidenza e possanza che l’elemento urbano non dico che diventa secondario, ma convive come un elemento secondo. A New York e a Napoli natura e artificio sono talmente compenetrate da quasi scambiarsi le parti.

Benjamin ha scritto pagine difficilmente dimenticabili su cosa significhi viaggiare in una città. Si è anche soffermato su quanto cambi lo sguardo dell’autoctono e quello dell’esule. Quanto nel primo prevalga una città fatta di memoria e quanto nel secondo si debba fare i conti con la possibilità in continuo agguato dello smarrimento. Perdersi in una città come ci si perde in una foresta, sostiene Benjamin,  è la vera arte del viaggiatore di città.

Quando dico che la conoscenza dello spazio urbano avviene quando si toccano le epidermidi del viaggiatore con quelle della città, forse sto dicendo che si possiede parzialmente una città quando sulla sua superficie si scorge il suo antefatto naturale. Forse per questo le città-cosmo hanno il mare. Non ho detto che lo possiedo, perché, ad esempio, Napoli è stata via via spossessata del suo mare. Ma anche se non c’è più un contatto vicendevolmente rigeneratore, il mare esiste. Giùnapoli esistono soprattutto il mare e il mondo antico.

Ma qui si apre un discorso complesso e vasto e per oggi è invece venuto il momento di salutarci. Vi auguro un’estate di viaggi: reali e mentali, che a volte sono la stessa cosa, basti pensare a Giorgio Manganelli. Se vi capita, portate con voi Cina e altri Orienti. Salvatore Silvano Nigro ne ha appena approntato una nuova edizione per Adelphi.

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