Vincenzo Faccioli Pintozzi
A proposito di “Cina e altri Orienti”

A est di Manganelli

Adelphi ripubblica una raccolta di articoli di viaggio dei primi anni Settanta di uno dei grandi dell letteratura. Che racconta con onestà, e non è poco, un mondo che però sembra capire poco

La cosa bella, di questo Cina e altri Orienti, è che Giorgio Manganelli non cerca di mentire. Non ha (idealmente) una camicia coreana, né tanto meno simula di aver compreso il mistero dell’illuminazione di Siddharta Gautama. È un viaggiatore occidentale che – per i motivi più svariati – ha avuto la fortuna (o quanto meno l’occasione) di visitare l’Oriente. Più Orienti, in effetti, che passano dall’estremo Est di Cina e Giappone a una più occidentale Malaysia – che sembra l’unica in grado di conquistarne il cuore.

I suoi articoli, scritti dopo questi viaggi, sono stati raccolti e ripubblicati da Adelphi. Dall’Arabia a seguito del presidente Leone alla Cina della Rivoluzione culturale, Manganelli sembra aver avuto l’opportunità di visitare l’Asia nei momenti in cui il continente si preparava a emergere come attore di prima grandezza sul palcoscenico mondiale. Ma il giornalista-scrittore non intinge la punta della penna in questa analisi: lui guarda con l’occhio del vero occidentale a un mondo puramente orientale.

L’effetto è duplice. Da una parte, i suoi scritti suonano come un diario di viaggio interessante e alla portata veramente di tutti. Anche se la metodologia di scrittura non è quasi mai lineare, ha il pregio di non essere piatta; uno stile che d’altra parte Manganelli ha sempre mantenuto, non creato solo per questi viaggi. Dall’altra, ma questa è impressione di chi ha potuto visitare le stesse zone circa 40 anni dopo, si rimane un poco delusi.

È la delusione di chi sperava di trovare i germi di quello che avrebbe poi visto in prima persona esplodere come una vera e propria “primavera orientale”, un modo di vedere il mondo da est. Ma è una delusione che dura poco. Perché si impara quasi subito ad apprezzare l’onestà intellettuale dell’autore, molto più interessato a raccontare quello che vede e non piuttosto a giudicare quello che non conosce.

Adelphi rimanda in stampa un testo del 1974, e i diciotto euro che chiede non sono troppi. Rimangono alcuni punti oscuri e un punto dolente. Il punto oscuro è capire cosa ci fosse, nella Kuala Lumpur di 40 anni fa, in grado di affascinare così tanto l’autore che gli dedica in percentuale rispetto agli altri Paesi visitati uno spazio spropositato. Così come ci si chiede quale sia il problema con le Filippine, bistrattate ingiustamente – ma forse per colpa dei Marcos (e soprattutto l’ignobile Imelda) ancora al potere.

Il punto dolente è la Cina, visitata in piena Rivoluzione culturale e tuttavia presentata come un paradiso dell’egualitarismo, dell’uguaglianza sociale “che mette il cameriere alla stregua del ministro e vice versa”. Ora, è comprensibile che chi non l’abbia vista attraverso la lente della Storia possa aver mal compreso la cronaca di quei terribili giorni cinesi; e si potrebbe persino comprendere chi – alla luce delle ideologie imperanti all’epoca – decidesse per il perdono nei confronti degli aguzzini di Stato sostenuti da Mao.

Ma scambiare una casacca blu uguale per tutti come simbolo di civiltà e uguaglianza è una cantonata forse troppo grossa per essere abbuonata, persino allo sguardo disincantato e oltremodo onesto di uno dei grandi della letteratura italiana.

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