Loretto Rafanelli
Sergio Zavoli poeta

Sull’orlo dell’enigma

Nella nuova raccolta “L'infinito istante”, il maestro di giornalismo riafferma, una volta per tutte, la sua statura poetica fatta di “materiale puro”

È opinione diffusa che alcuni poeti (per esempio, Montale e Ungaretti) abbiano sofferto una certa “aridità” senile, aggiungendo versi non sempre all’altezza della grande fama acquisita, per altri invece non si è verificato alcun declino. Ne è un esempio Sergio Zavoli che con il libro L’infinito istante (Mondadori, 130 pagine, 15 euro), ha uno scatto poetico ulteriore rispetto alla precedente raccolta, La parte in ombra, uscita nel 2009, lavoro peraltro ben riuscito. Questa linea ascendente si può pensare che dipenda dal fatto che non essendo egli stato solo poeta ma molte altre cose (e che quindi la sua vena creatrice si sia manifestata in tanti versanti), sia ancora in debito verso la poesia, quasi esistesse in lui una dote in versi in attesa di essere svelata. In effetti, Zavoli, pur impegnato in molteplici attività, ha avuto sempre come centro gravitazionale il “fuoco” poetico, il prezioso sguardo a quella parola generatrice che tanto accoglie e tanto dà, e che egli sente sua, come dice in questa poesia: «Splendi in silenzio,/ parola mille volte rinata,// Grazie del poco fiato che mi hai chiesto,/ come il mare arrotoli la voce/ sulla riva e la consegni/ a una striscia di sabbia indifferente».

Zavoli, in L’infinito istante, percorre varie fasi della sua esistenza, dall’infanzia fra Ravenna e Rimini, all’oggi (vissuto nel piccolo centro vicino a Roma, Monteporzio). Narra della sua vita intima, domestica, ma pure dei vari passaggi compiuti e di quella società e di quella comunità dove ha passato la vita, tutto senza mai eccedere nella retorica del sentimento o nell’esaltazione delle proprie esperienze. Procede sempre con discrezione e garbo, usando un tono mai urlato, quasi silente, come, ad esempio, nella poesia che ricorda l’attacco tedesco a Rimini, un’azione di guerra proveniente dal mare iniziata il 2 novembre 1943, prima fase di un intervento che colpirà duramente la zona (ci furono ben 397 bombardamenti), tanto che la città divenne un ossario sconfinato e “meritò” la definizione di “città martire”.

Un massacro che il poeta riesce a raccontare con un tono lieve, quasi accennato: «Fu quella la mattina, quando dal mare/ gli scarabei lucenti si avventarono/ contro la città./ Poi la terra si mise come a urlare,/ mi prendevo la testa fra le mani/ per non vedere il lampo/ che divideva i vivi dalla morte/ e altri ne aggiungeva/ al giorno dei defunti». Straordinario tocco, che riesce a dare il senso di una tragedia immane attraverso un termine: lampo, o meglio il tempo di un lampo, quello che divideva la vita dalla morte. Oppure quest’altra poesia che ricorda i momenti dell’infanzia del figlio con le sue gioie e i primi conti da fare con la vita: «Ieri per fare largo al sogno,/ il mare abbrividì di un color verde,/ aveva addosso un tremito di creste/ come tanti ramarri presi al laccio;/ era la coltre di settembre,/ quando la spiaggia apriva i suoi piazzali/ e la luna imbiancava le maree./ La vita, Andrea, ti preparava/ il posto dove alzare gli aquiloni,/ i sogni appesi ai fili anche di notte».

Zavoli è un poeta che merita di essere seguito con attenzione, come si è fatto con i veri poeti del passato, perché raro è l’equilibrio che riesce a dare ai suoi versi, che risultano armoniosi e ispirati, quasi classici eppure esenti da ridondanze, segnati da una creatività che infiamma e illumina. Eccone alcuni altri esempi: «arriva dalle albe di Pomposa/ la luce cherubina, e il branco delle ombre/ fugge verso le torri a guardia di Ravenna»; «Ora la pioggia illumina/ l’ombra del casale,/ il sole intiepidisce appena/ il fianco che lo spigolo offre/ spartendo l’acqua in due»; «Il gelo abbaglia un’alba repentina,// mentre i fiumi hanno la gola/ ancora chiusa e sulla riva il mare/ depone un viaggio sonnolento». C’è nel poeta una maestria assoluta a riportare i tanti paesaggi che il suo occhio fin da bambino ha ospitato, sì, ospitato, non catturato, perché egli sa accogliere le immagini e porle nella poesia, come fosse la concessione di un dono che in noi si trattiene e diviene vita.

Mirabili i versi che sono all’inizio del libro e raccontano di uno squarcio romagnolo che dà sul mare nella primavera: «Le scarpe in mano, verso maggio,/ venivamo a vedere/ il mare che si frange contro il braccio/ del porto;// era quel breve assaggio ad annunciare/ l’arrivo di un tepore ormai maturo/ o un guizzo ancora acerbo dell’estate». Il ciclo della vita, e con esso il senso del logoramento, è un filo che si coglie, eppure non si avverte come minaccia, bensì pare che il culmine di questo ciclo sia il naturale approdo, da accettare con una sottile ironia: «Era la vita, il tempo, la memoria, ora scivola come l’orologio/ nella tasca di un ladro». Riflessione sulla vita e sulle cose che ci ha dato e che possiamo forse rimpiangere dati i suoi frutti d’oro, ma pure da vivere con una partecipazione dolce e serena, da accogliere con l’umiltà dell’uomo che tanto ha dato, ma, soprattutto, ha avuto: «Il giorno scenderà con i colori/ del porto, l’incensiere avrà pronto l’odore del salmastro, da voce a voce/ si dirà che è l’ora; rassegnati…».

Perché l’esistenza umana è forse un istante, forse un infinito istante, che si sintetizza con una domanda a cui si potrà rispondere nel modo più confortante che si possa immaginare: «So che ogni volta è stato un giorno nuovo,/ mai conosciuto prima sulla terra, oggi/ mi basterebbe un fascio di lavanda/ e un azzurrino sulle dita». Zavoli ha anche un suo modo di parlare della natura, nei suoi versi racchiude di essa un senso di appagamento e di mistero, senza tuttavia che divenga scenario incombente e invadente, ripetuto e minaccioso, come succede ad altri poeti che sulla natura centrano la propria attenzione. Direi che in questo caso possiamo parlare di una accoglienza che si fa canto: «Brillano le bordure,/ dall’erba già risale un odore/ inverdito, un fiato nuovo». Una natura di cui si deve dire con discrezione, da rispettare e amare come la vita, anzi, perché è la vita.

L’impressione che ci riporta la poesia di Zavoli, è di avere a che fare con un poeta che ha un posto sicuro nella storia poetica di questi anni, come peraltro già sosteneva Carlo Bo, quando affermava che era poeta di “materiale puro”. Difficile infatti trovare nella poesia di oggi tanta intensità, tanta pulizia del verso, un così raffinato uso della lingua e un legame così autentico e consapevole con la tradizione della grande poesia, sia classica sia del Novecento italiano. C’è una partecipazione emozionante e onesta (termine sabiano, quanto mai giusto in questo caso), estranea a manierismi, vissuta solo come profonda e sentita condizione umana. Il dialogo che il poeta innesca con se stesso e con gli altri, rivela un’interrogazione necessaria, un predisporsi al contatto con la vita che svela lo spessore del grande uomo, che ancora però si interroga e indaga sul proprio percorso esistenziale. C’è, insomma, la modestia di chiedere ancora un perché, rimuovendo con forza «quel tramonto dagli occhi», come in questo passo che ricorda il grande Luzi: «ma esser nati sull’orlo dell’enigma/ vuol dire che il fulmine è lo stesso/ ovunque cada?».

Nel valutare la poesia di Zavoli e pensando alla sua sostanziale esclusione dalla storia poetica dei nostri anni, c’è da domandarsi se egli non paghi quella sua “dislocazione” rispetto all’essere poeta-poeta. Forse questo poco importa dal momento che Zavoli è comunque personaggio di rilievo assoluto. Recensendo La parte in ombra, il precedente libro mondadoriano, dicevo che si poteva per lui usare il termine indicato da Andrea Zanzotto in un saggio su D.M. Turoldo: «multiversa», per dire di una persona che sa esprimersi in diversi ambiti, con una molteplice e ricca dote culturale, con capacità, umanità e conoscenze professionali adeguate. Di questa varia e preziosa esperienza è ragionevole pensare che Sergio Zavoli sia soprattutto riconosciuto come maestro di giornalismo e come politico corretto, ma certo non si può oscurare la sua statura di poeta. L’infinito istante ne è una ulteriore importante dimostrazione.

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