Elisa Campana
Un evento tra memoria e disincanto

L’Isola che non c’è

Oggi inizia il festival dell'Isola di Wight. Sì, proprio il luogo mitico del raduno del 1970. Quello di Joni Mitchell, Miles Davis, Emerson Lake & Palmer, i Doors di Jim Morrison, Jimi Hendrix.. Ma nulla è più come allora: né lo spazio né la musica né il pubblico. Né, soprattutto, i sogni

L’Isola di Wight è un fazzoletto di terra a quattro miglia dalla costa sud dell’Inghilterra: dal terrapieno erboso del Southsea Common a Portsmouth sembra di poterci arrivare a nuoto, in due bracciate. Le coste dell’Hampshire, sotto Chichester, passando per Portsmouth e Southampton, sono meta di pallidi inglesi alla ricerca di rossastre abbronzature nella tiepida estate britannica. La regina Vittoria rimase ammaliata da questa isoletta dalle bianche scogliere, tanto da farci costruire la propria residenza, Osbourne House, che con i suoi giardini trionfa tra le alture vicino Cowes.

“Sai cos’è l’isola di Wight, è per noi l’isola di chi ha negli occhi il blu, della gioventù….” Avevo più o meno sette anni e ascoltavo trasognata mio padre che alla tastiera intonava uno dei successi dei Dik Dik. Mio padre, classe 1953, cresciuto con i grandi gruppi della stagione d’oro del rock. Mio padre, che non se perse uno di concerto a Roma: i Queen, i Rolling Stones, i Deep Purple…. E nella cultura degli amanti del rock ci sono due pietre miliari, insuperate perché insuperabili, Woodstock e il Concerto dell’Isola di Wight.

Mi ricordo la gioia sul volto di mio padre quando quella stessa bambina gli disse che sarebbe andata a lavorare a Portsmouth: mi disse che sarebbe venuto a trovarmi perché doveva andarci all’isola di Wight, doveva vedere con i suoi occhi quello che i suoi miti di gioventù avevano visto, i miti di un’intera generazione mondiale che, in quella musica “alternativa” perché contrapposta al pop commerciale, aveva visto espressi il proprio malessere, la propria ansia di ribellione, la propria aspirazione di anticonformismo o, più semplicemente, una grande musica di sperimentazioni selvagge e ritmi frenetici.

Tuttavia, fino al 1970, sull’Isola di Wight non vi erano che pensionati annoiati, qualche villeggiante stressato e un manipolo di appassionati dell’Admiral’s Cup, tremenda regata per imbarcazioni a vela. Fino al 1970, ossia, fino a quando i fratelli Ray, Ron e Bill Faulk, assieme a Peter Harrigan, organizzarono un maxi raduno sulla scia di Woodstock, destinato a passare alla storia come il “Festival dell’Isola di Wight”.

A onor del vero, il mitico Festival, che tra il 26 e il 30 agosto del 1970 portò un’oceanica baraonda di circa 600.000 persone o forse più, fu solo l’ultimo capitolo di una saga che era cominciata in sordina nel 1968, con la sola differenza che, al contrario di quanto spesso accade per libri e film, in cui gli ultimi sono copie sbiadite e annoiate delle versioni precedenti, l’ultima edizione del mega concerto fu un successo senza precedenti. Fu il concerto di The Who, Joni Mitchell, Miles Davis, Emerson Lake & Palmer, i Doors con Jim Morrison e fu il concerto di Jimi Hendrix, che morì diciotto giorni dopo in un’anonima stanza di Londra. Fu insomma la celebrazione del sex, drugs and rock ‘n’ roll, l’apoteosi del Flower Power e il trionfo dell’Isola di Wight.

E oggi cosa è rimasto di tutto questo? L’anno dopo quello che passò alla storia britannica come il più grande raduno di tutti i tempi, il Parlamento varò l’“Isle of Wight Act” che vietava di organizzare sull’isola esibizioni per più di 5.000 persone. Dal 2002 si è ricominciato a celebrare delle riedizioni del Festival, così come accade per Woodstock, e molti sono i grandi nomi che sono saliti sul palco dell’IOW Festival, i Muse, i Police, i Sex Pistols, Bruce Springsteen. Oggi inizierà l’edizione 2013 con Bon Jovi, The Killers, The Stone Roses, grande musica e grandi artisti, ma la magia è ormai scomparsa e quell’estate 1970 non è che una lontana reminiscenza.

Mio padre venne a trovarmi e all’isola di Wight, sulle orme dei suoi miti, ci andammo veramente, e ricordo quanto ci rimase male nel non trovare neanche un poster, una cartolina o un pub che ricordassero quel raduno leggendario, ormai risucchiato dal tempo. Ricordo il suo sguardo deluso perdersi per l’East Afton Farm, dove si tenne il concerto – oggi la location è cambiata –  una sconfinata radura erbosa sulla strada verso i famosi Needles (i Faraglioni). Niente, neanche una targa. Per lui era impensabile che non ci fosse alcunché a commemorare quello che è stato un glorioso tripudio non solo musicale ma anche generazionale, di valori e ideali spazzati via dal vuoto della società contemporanea, come il vento che soffiava inclemente quel giorno sull’East Afton Farm, a ricordare i sogni spezzati di una generazione “bruciata”. Perché sì, la generazione di mio padre almeno un sogno ce l’aveva: sognare una vita diversa, una vita più vera perché più libera, attraverso quel polo alternativo rappresentato da quelle canzoni e da quei cantanti maudits.

E invece la mia generazione  forse non ha più neanche i sogni. Non ci resta che guardare anche noi, con lo stesso sguardo disilluso di mio padre, a una landa di grandi spettri del passato, immaginando valori e ideali che non sono poi neanche i nostri, annientati dal tempo e dalla staticità imperante che ci circonda. Il concerto continua, ma il grande rock è morto e con esso abbiamo seppellito la maggior parte dei suoi paladini e degli ideali di cui quel Festival fu tripudio e portavoce. Jay Gatsby, immortale personaggio di Scott Fitzgerald, affermava che si potesse ripetere il passato. Be’, caro Gatsby, anche tu rincorrevi i tuoi fantasmi e tutti sappiamo quanto ti sbagliassi.

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