Alessandro Boschi
Il ritorno di un cult dell'orrore

Il diavolo restaurato

La prossima settimana torna nelle sale, rimesso a nuovo, un film che all'epoca fece clamore: "L'esorcista". Una pellicola che resta di impatto forte e che continua a porre (strane) domande

Rimontato con il finale consolatorio che cita quello celeberrimo di Casablanca,  L’esorcista, che tornerà in sala il 19 di questo mese,  riesce ancora ad inquietarci come la prima volta che apparve sui grandi schermi nel lontano 1973. La pellicola, proiettata in occasione della presentazione del XXXIII Fantafestival che si sta svolgendo nella capitale, è stata ripulita e digitalizzata, anche se l’audio presenta degli evidenti rattoppi e alcuni brani sono stati ridoppiati ex novo.

La storia, e la sua genesi (forse il termine qui è un azzardo)  sono note. Tutto parte da un articolo del Washington Post del 1949 che in realtà parlava di un bambino, e non di una bambina come nel film, liberato da una presenza demoniaca grazie all’intervento di un prete cattolico. Da qui lo spunto per il romanzo dello  scrittore William Peter Blatty, che figura anche come produttore del film. Film che, incredibile dictu, fu rifiutato per vari motivi da registi del calibro di Arthur Penn, Mike Nichols e Stanley Kubrick. In realtà William Friedkin, che si aggiudicò l’appalto, era stata da subito la prima scelta di Blatty, e la Warner Bros lo dovette accettare obtorto collo anche per una forma di riconoscenza nei confronti di un  regista che aveva da poco portato a casa l’Oscar con Il braccio violento della legge. La storia del film o meglio della sua produzione  è un concatenarsi di casualità, dalla scelta della protagonista Linda Blair capitata al casting senza nemmeno un appuntamento a quella di padre Karras, Jason Miller, attore esordiente scelto da Friedkin al posto di Stacy Keach. Lo stesso Max von Sydow, padre Merrin, aveva al tempo delle riprese solo 43 anni, e fu vistosamente invecchiato dal trucco per una parte che la produzione avrebbe volentieri affidato a Marlon Brando. Il quale, secondo Friedkin e non solo, avrebbe sbilanciato il cast.

Rivisto a distanza di tanti anni sul grande schermo  dopo varie ulteriori visioni in Tv e in Dvd in versioni più o meno censurate, L’esorcista non perde nemmeno un newton della sua forza. E ogni volta ci colpisce con inaspettata violenza. Sono cose che succedono, queste, solo quando un film è imperfetto, quando il cast come abbiamo visto è frutto di più indicazioni e il genere è un  unicum. Perché la pellicola di William Friedkin è difficilmente collocabile in un genere. Ma di un genere è capofila, anche se film sullo stesso argomento erano già stati fatti. Come dice Borges a proposito di Kafka e Hawthorne, “ogni grande scrittore crea i suoi predecessori”. Così Friedkin ha creato predecessori ma soprattutto proseliti. Facciamo quindi alcune considerazioni su questa proiezione, perché per la prossima non saranno le stesse, come dovrebbe succedere con ogni film, o libro o storia, che affrontano argomenti  così intimamente connessi con la nostra natura più misteriosa e insondabile.

La prima cosa che abbiamo notato è come viene affrontato il problema del  malessere (chiamiamolo così) di Regan dalla scienza ufficiale. Che ci appare illuminata esattamente nel momento in cui fa ricorso ad una possibile risposta offerta dal più vieto oscurantismo: “Ha mai sentito parlare di esorcismi, signora?”. Così uno dei medici si rivolge alla madre, atea, Ellen Burstyn. E al tempo stesso la resistenza di padre Karras, gesuita, restio nel riconoscere la necessità di un esorcismo. Così come restii saranno i suoi superiori che per sicurezza gli affiancheranno il vetusto e più esperto padre Merrin. Come se l’esorcismo si trovasse in una terra che nessuno vuole attraversare, con la differenza che l’uomo di scienza non sa, l’uomo di Chiesa non vuole. Ma deve. E poi il contesto: la madre di Regan è una nota attrice, il padre non si sa dove sia e la servitù è di chiare origini alemanne, svizzere in realtà. Quindi il male alligna nel mondo del cinema? È una conseguenza di una famiglia sfasciata? Fa male avere l’accento di Hitler? Una curiosità: Rudolph Schundler, classe 1906, che nel film interpreta appunto il maggiordomo di casa Regan, risulta essere morto nel 1988 per il più noto sito statunitense di informazioni legate al mondo dello spettacolo, è invece ancora in vita per un sito italiano del quale non faremo il nome per carità di patria, dal momento che il buon Rudolph avrebbe adesso 107 anni. Oddio, tutto è possibile, ma se dipendesse da noi una ricerca biografica  più approfondita la faremmo.  E poi padre Dyer, amico di padre Karras, interpretato dal gesuita irlandese William O’Malley, esponente di punta della cattolicissima Fordham University e non a caso consulente di Friedkin. Ebbene, sarà un caso, ma suo è il personaggio più ambiguo. Sia per il suo atteggiamento nei confronti della vita, ” la mia idea di Paradiso è un night club tutto bianco dove io sono la vedette di punta”,  sia per la sua indecifrabile amicizia nei confronti di padre Karras stesso.

Il finale, questo finale, sarà comunque suo, insieme al rassicurante tenente Kindermann interpretato da Lee J. Cobb. Finale che tra l’altro sarà motivo di discussione tra Blatty, fervente cattolico, e il regista, più incline al dubbio e all’ambiguità.  La domanda è: il diavolo esiste? Pensateci bene, rispondete, e poi scegliete il finale che più vi aggrada.

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