Nicola Fano
"Atti mancati", un romanzo da non perdere

Gioventù perduta

Matteo Marchesini ha raccontato la storia di una generazione cresciuta immaginando (e studiando) un mondo fatto di cultura, solidarietà e sogni che, all'atto pratico, non esisteva più. E ne è venuta fuori una denuncia molto amara

Silvio Berlusconi non è il male assoluto. Ma negli ultimi vent’anni ha importato in Italia tutto quanto di peggio è stato prodotto nel mondo in politica, nel commercio e nell’industria dell’immaginario; se non lo avesse fatto lui, lo avrebbe fatto qualcun altro, magari anche peggio di lui. Solo che oggi ci troviamo in questo Paese che ha messo fuori gioco non tanto la cultura in senso stretto, quanto la curiosità, la voglia di cogliere tutti gli strati della complessità della vita. Tutto è diventato semplice, e chi non si adatta non è complicato ma solo un disadattato.

Non ho potuto fare a meno di pensare alla nostra attualità desertica leggendo un bel romanzo: Atti mancati di Matteo Marchesini pubblicato da Voland (sono 125 pagine e costa 13 euro). Non ho potuto farne a meno perché – esattamente come il personaggio principale della storia, Marco – ritengo che ogni prodotto della cultura e dell’arte non possa essere analizzato altro che nel suo contesto sociale e politico. E che anzi da questo esso prenda sostanza. E la sostanza di Atti mancati è quella di una denuncia. Durissima.

matteo marchesiniSalvo che Matteo Marchesini è giovane (un giovane, assai promettente critico che ha regalato qualcosa di sé anche a noi di Succedeoggi, sappiatelo per valutare correttamente il mio punto di vista) e la sua denuncia coglie in pieno le responsabilità dei suoi “padri” alla cui generazione, in un modo o nell’altro, appartengo. Insomma, Marchesini ce l’ha anche con me. Con il fallimento della rivoluzione che io e (moltissimi) altri come me non siamo stati in grado di portare a termine, finendo spazzati via dalla raucedine di una media borghesia rozza e ignorante che ruttando e gridando (o toccando culi e altro) ha cancellato la complessità dall’orizzonte di tutti.  Ma è nel dolore dei ragazzi che abbiamo di fronte che sentiamo tutto il peso della nostra sconfitta.

Dunque, siamo a Bologna, nei dintorni della sua università. Marco è un giovane intellettuale: colleziona articoli per i giornali inseguendo il romanzo che darà senso alla sua vita. Ritrova Lucia, ex fidanzata, ex sognatrice, costretta alla realtà da una malattia impietosa. In mezzo a loro due fantasmi: quello di Ernesto, amico e compagno di illusioni e di studi e quello di Bernardo Pagi, un professore saggio che ha abdicato alla propria funzione didattica come segno di sconfitta generazionale (sempre la stessa…). Le vicende che si snodano dall’incontro, dopo molti anni, fra i due protagonisti sono terribilmente venate di passato: come se “ciò che non è stato” fosse l’unica dimensione consentita a questi giovani cui è rimasto solo il privilegio di riguardare come erano “mentre attraversavamo la frastagliata linea d’ombra tra laurea, co.co.co e dottorati”. E in quel passato si colgono segnali di morte e di malattia: premonizioni del vuoto che sarà. Questo vuoto covato in anticipo è anzi il corpo del romanzo di Matteo Marchesini. Tanto che la narrazione si fa sovente scrittura saggistica, analisi del presente culturale e della necessità della letteratura.

Non è per fare (inutilmente) nomi grossi, ma il disagio che si vive qui è quello che si coglie nella vita di Stephen Dedalus. Quando me ne sono reso conto, una domanda mi ha assalito: è ragionevole immaginare che Marco, il protagonista di Atti mancati, abbia letto Joyce o almeno qualcosa ne sappia, ma oggi, chi si ricorda più di Joyce? Avete fatto caso che qualche mese fa Einaudi ha dato alle stampe una nuova traduzione (bella, per altro) di Ulisse nel silenzio totale? Non è solo una questione di mode letterarie (chi è lo Joyce d’oggi? La signorina inglese E. L. James?) ma anche di perdita di memoria e di senso. Di atti mancati, insomma. Che non sono tanto quelli di Marco, di Lucia, del giovane Ernesto morto contro un albero o del loro professor Pagi che ha smesso di insegnare, ma sono gli atti mancati di una società intera che nel corso di questi due decenni ha dato fondo al peggio di sé. Come se la cultura, l’impegno, la solidarietà e il progresso sociale espressi dalla fine della guerra agli anni Ottanta del secolo scorso avessero comportato uno sforzo disumano. Da compensare con anni e anni di idiozia e furbizia. Il guaio è che Marco, Lucia e gli tutti altri hanno studiato credendo che il loro futuro sarebbe stato quello che poi è sparito. E la colpa è la nostra.

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