Alessandro Boschi
Dopo il Golden Globe

Romanzo Italiano

Riproponiamo la nostra recensione de "La grande bellezza" (con molti distinguo): è un apologo sulla decomposizione del nostro Paese. Le grandi prove di Toni Servillo, Sabrina Ferilli e Carlo Verdone riscattano una regìa troppo raffinata e rarefatta nel descrivere l'orrore morale

La prima cosa che ci siamo chiesti vedendo La grande bellezza, nuovo film di Paolo Sorrentino da oggi nelle sale, è stata chi fosse Gustavo Modena, del quale all’inizio della pellicola si vede il busto durante una sequenza girata al Gianicolo (insieme ad un titolo su Francesco Totti). E abbiamo trovato questa definizione del drammaturgo Francesco Dell’Ongaro:  Modena è un capo scuola. Che sopra tutti come aquila vola.  Era un attore e un patriota, Gustavo Modena (1803-1861) e lo ammettiamo: non lo conoscevamo. Ma immaginiamo che questo sia secondario. Quello che più colpisce è il paragone, supponiamo casuale, con l’aquila che vola. Proprio come la cinepresa di Paolo Sorrentino, che a volte come aquila, più spesso come avvoltoio compiaciuto, si libra per oltre due ore sulla città eterna svelandone vizi secolari e bellezze eterne.

Ci è anche venuto in mente di  suggerire a Sorrentino che un film può essere un buon film, un ottimo film, anche senza essere un’opera d’arte assoluta. Perché le prime sensazioni, quel modo di girare fin troppo impeccabile e purtroppo compiaciuto, sembravano l’ennesima, vana ricerca di una perfezione stilistica  non solo non richiesta ma nemmeno necessaria. Per  raccontare la Roma di Jep Gamberdella/Toni Servillo, giornalista scrittore di un unico grande romanzo,  sarebbe servita una rozza esplosione di energia, perché quella Roma lì, che esce pari pari dai noti Cafonal è quanto di più rozzo si possa immaginare, al punto che i nobili più nobili sono rimasti quelli a gettone, dei Colonna di terza categoria, che vivono in uno scantinato. Ed è anche malata, come si vede in ogni festa, una volta le manca un occhio, un’altra ha una gamba rotta. Poi, invece, il film torna ad essere “normale”, e certi cedimenti al virtuosismo si fermano a raccordi tecnici più che emotivi.  Non a caso la pellicola mostra una certa fastidiosa discontinuità dalla quale solo la straordinaria prova di Servillo ci distoglie.

Il protagonista dà spesso la sensazione di essere un “Divo” senza chiesa e politica, immerso nella realtà di feste e bagordi dai quali si salva solo grazie al sarcasmo e ad un’anima che ancora porta dentro di sé le scorie di un amore passato, infelice e puro come solo gli amori mai vissuti fino in fondo possono rimanere.  Ma questo germe di purezza non basta per trovare “la grande bellezza”, le cui chiavi sono privilegio di pochi fidati custodi. E poi Roma in fondo non è più Roma, come dimostra l’amico Romano (non a caso),  che se ne torna al paesello sconfitto dall’impossibilità di salvaguardare una vocazione artistica ed umana troppe volte tradita. Tra i tanti richiami (non narrativi, ma immaginifici) al cinema di Fellini, primo fra tutti la scena con la giraffa che così bene sarebbe stata al fianco del moribondo rinoceronte di E la nave va…, ci piace segnalare anche il rapporto tra Romano/Carlo Verdone (bravo) e il protagonista, che ricorda quello tra Tognazzi/Baggini ed Enrico Maria Salerno/Roberto in Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, dove il povero guitto rischia l’infarto per compiacere il potente produttore. Certo, qui è tutto più soffuso, sempre in virtù di quella mancanza di energia incontrollabile che, proprio in quanto tale (incontrollabile) non viene mai rischiata.

Questa freddezza nei confronti dei personaggi (che Fellini ad esempio non aveva), eccezion fatta per Joe Gambardella, lascia al film poche vie di sbocco, e ne pregiudica un respiro più ampio che così deve sempre limitarsi al punto di fuga del protagonista. Anche il personaggio più positivo, quello della spogliarellista Ramona interpretata da una sorprendente Sabrina Ferilli, rischia di incartarsi. Salvandosi con un epilogo dolente e paradossale rispetto alla generosità del suo vivere. Per il film vale quello che dice il protagonista della vita: alla fine “restano solo degli sprazzi di bellezza sepolta”, tra ricordi e visioni, il resto vola via, come il branco di fenicotteri fermatisi a riposare sulla terrazza di Gambardella, spinti lontano, al sicuro, dal soffio di una (futura) santa.

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