Stefano Bianchi
Due mostre a Parigi

Haring politico

Oltre la superficie degli “ideogrammi pop” che hanno reso universali i graffiti del pittore americano, un grumo di battaglie sociali e civili combattute con rabbia e senso di giustizia. Fino a quella finale contro l'Aids...

A Parigi, fino al 18 agosto, Keith Haring combatterà contro il razzismo, il capitalismo, il consumismo, l’Aids (che lo uccise il 16 febbraio 1990, a 32 anni). Ciò che dovete fare è spingervi oltre la superficie degli “ideogrammi pop” che hanno reso universali i suoi graffiti e scavare sotto le sue icone da arte-in-gadget riprodotte su spillette e t-shirt: bimbi radianti, cani abbaianti, piramidi, televisori e dischi volanti riconducibili a vita, natura, antiche civiltà, tecnologia, potenza. Al Musée d’Art Moderne che guarda all’orizzonte la Tour Eiffel e negli spazi del Centquatre, centro culturale polifunzionale del 19° arrondissement, scoprirete che la breve vita dell’artista americano che creava ultrarapido senza mai sollevare pennello, pennarello e bomboletta spray da tele, carte e muri, è stata un grumo di battaglie sociali, civili e politiche. Il suo tocco semi-infantile dai colori scintillanti, liberamente ispirato a Dubuffet, Tobey, Alechinsky, Pollock e Klee, alle calligrafie Maya e ai geroglifici egizi, s’è tradotto in capolavoro ogni volta che ha affrontato temi drammatici con rabbia e senso della giustizia. E di capolavori è piena questa doppia retrospettiva, efficacemente intitolata The Political Line: 250 lavori su tela, carta, tela cerata e vetroresina al Musée d’Art Moderne; una ventina di opere monumentali al Centquatre.

Alla fine degli anni Settanta, Keith Haring intreccia figure appena abbozzate per poi spruzzarle di vernice rosso sangue. Sono i primi focolai di ribellione contro il Sistema, ben documentati nell’incipit della mostra, preludio ai subway drawings tracciati col gessetto nelle stazioni della metropolitana di New York sui pannelli neri che coprivano le vecchie pubblicità e ai collage di parole ritagliate dai quotidiani e ricomposte (alla maniera del cut-up di William Burroughs) in provocatori titoli come Reagan: Ready To Kill. Ogni immagine, da qui in avanti, equivarrà a una denuncia che il percorso museale declina tema per tema.

haringunoLa prima sezione, The Individual Against The State, è il lucido racconto di una società che intrappola l’uomo costringendolo alla resa totale. Ma fra quegli omuncoli senza volto assaliti da cani ululanti o lacerati da mani giganti, con le X tatuate sul petto come fossero bersagli da colpire, c’è la certezza che ciascun individuo saprà conquistarsi l’agognata libertà. Velenosa, in Capitalism, è invece la critica allo strapotere dell’America e del dio dollaro simboleggiati da un mostro che divora i cittadini; e gonfia di sarcasmo è la denuncia del consumismo, con Mickey Mouse che si tramuta in Andy Mouse: metà Warhol, metà Topolino. In Religion, brutalmente, le croci penetrano attraverso i corpi. E in un dipinto del 1985, una Bibbia brucia lasciando fuoriuscire serpenti dalle fiamme.

Gran parte del male, è il ragionamento di Haring, viene compiuto nel nome del bene da religiosi, falsi profeti, fottuti artisti, politici, affaristi. E se in Mass Media la dittatura tecnologica minaccia d’azzerare la realtà e uccidere la creatività sostituendo teste e cervelli con televisori e computer, Racism è l’atto d’accusa contro le discriminazioni in un mondo oppresso dal colonialismo, dalla guerra in Vietnam, dall’apartheid in Sudafrica. È qui che la potenza pittorica, simboleggiata dalla malvagità dell’uomo bianco, si fa più violenta e sanguinaria. Ogni figura è una stretta al cuore, ogni storia un nodo alla gola. Ma che la discesa agli inferi sia appena cominciata lo testimoniano le opere di Ecocide, Nuclear Threat, Apocalypse che vedono il graffitista scagliarsi contro l’inquinamento, il nucleare, la deforestazione selvaggia. Paventando la fine dell’umanità causa estinzione del pianeta, si susseguono funghi atomici, mostruose creature, sovraffollamenti umani e animali all’apocalittica maniera di Hieronymus Bosch.

haringdueNel 1978, quando da Pittsburgh si trasferisce a New York per isciversi alla School of Visual Arts, Keith Haring non fa più mistero della propria omosessualità. E la sex life, senza freni inibitori, irrompe nei suoi quadri. Sicché il capitolo finale, Last Works: Sex, Aids and Death, non solo racconta la battaglia personale contro l’Aids (scopre di essere sieropositivo nell’88) ma esprime l’urgenza di comunicare alla collettività l’importanza di rapporti sessuali protetti. Sesso sicuro e religione, inframezzati da sculture oversize, giganteggiano anche nella parte opposta di Parigi. Al Centquatre, ci si trova soggiogati di fronte al ciclo pittorico The Ten Commandments, realizzato nell’85 al Musée d’Art Contemporain di Bordeaux in soli tre giorni di frenetico lavoro. Dieci pannelli di 5 metri per 8, evocano i biblici comandamenti in un avvicendarsi di peccati e peccatori, sesso ingordo, banconote che transitano di mano in mano, schermi tv che tentano e blandiscono.

Intanto, da uno spazio all’altro di quest’immenso laboratorio d’idee, la musica s’incolla ai piedi di chi gareggia al ritmo dell’hip-hop. E un gruppo di bambini, orchestrati da un’insegnante, si mette a disegnare. Uno di loro esclama «stop!» e scambia il suo foglio con quello degli altri ottenendo figure sempre nuove. Proprio come faceva Keith Haring, quando giocava con sua sorella Kristen. Lui, che insieme ai bambini s’è messo a dipingere un sacco di volte, nelle scuole e negli ospedali, promuovendo con libri e poster i diritti dell’infanzia. Si sarebbe trovato bene, qui. Con un gran sorriso stampato sulle labbra. Il 4 maggio, avrebbe compiuto 55 anni.

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