Rita Pacifici
Omaggio a Louise Nevelson alla Fondazione Roma Museo

Metafisica del detrito

In mostra oltre settanta opere della Grande Dame della scultura internazionale che con i suoi legni a forma di muri, di colonne, di cattedrali, di scatole faceva affiorare il vissuto degli “objets trouvées”

Ha attraversato quasi per intero il secolo breve, con i suoi legni a forma di muri, di colonne, di cattedrali, di scatole che lasciavano affiorare il vissuto degli objets trouvées, pur celati, riassorbiti nel respiro uniforme del nero, del bianco, dell’oro. Louise Nevelson ha trovato nell’Europa, lasciata a soli sei anni, stimoli determinanti per il proprio percorso, ed è partita di volta in volta dallo slancio delle intuizioni cubiste, futuriste, dada, surrealiste, per poi raggiungere nell’ambito dell’espressionismo astratto, ma al di fuori di gruppi e movimenti, una fisionomia del tutto originale, conquistandosi il titolo di Grande Dame della scultura internazionale. Molteplici, dunque, le suggestioni artistiche, doppie le radici e il nome, nata Leah nella russa Ucraina nel 1899 e diventata Louise in America, tanti e diversi gli studi: la musica, il teatro, il canto, la danza, soprattutto, da cui apprenderà l’esistenza di una “quarta dimensione” del corpo.

Una soltanto, invece, la vocazione, precoce e radicale, precisa e tagliente come un raggio laser. Un’attrazione fatale per la solidità degli oggetti, per un procedimento artistico che non trovasse aiuto nel colore ma affondasse nella sostanza stessa della materia. «Un architetto delle ombre che mutano e si muovono», amava definire se stessa, un instancabile compositore di forme da sottrarre al buio e all’indistinto, innalzandole in una monumentalità misteriosa in grado di restituire «la memoria dei tanti secoli», del tempo immenso di cui l’artista si sentiva testimone.

nevelson 2La retrospettiva alla Fondazione Roma Museo, presso Palazzo Sciarra, curata da Bruno Corà (fino al 21 luglio), rende omaggio a Louise Nevelson con oltre settanta opere, provenienti da importanti istituzioni come la Nevelson Foundation di Philadelphia, il Louisiana Museum of Modern Art in Danimarca, il Centre National des arts plastiques in Francia, la Pace Gallery di New York e la Fondazione Marconi di Milano. Un nucleo consistente di lavori che evidenziano l’evoluzione del linguaggio plastico, a cominciare dai disegni e dalle terrecotte dipinte degli anni Trenta, caratterizzate dal segno primitivo e stilizzato, vicine al mondo figurativo degli amici più intimi, Diego Rivera, con il quale inizia a lavorare nel ‘33, e di sua moglie Frida Khalo.

Sculture di piccole dimensioni così lontane dalla grandiosità delle opere mature, ma già rivelatrici della predilezione per materiali vivi ed elementi mobili e per quella che è stata definita una «solidità immanente e tenebrosa» propria delle successive realizzazioni dell’artista americana. Sin dai primi anni Quaranta, infatti, la Nevelson, dalle suggestione cubiste degli esordi, si avvia verso un confronto sempre più diretto con una dimensione metafisica, tesa verso l’aspetto spettrale ed enigmatico del reale, scoprendo la poesia del frammento e le potenzialità espressive del legno che la risveglia, la eccita, accende la sua mente di immagini sorprendenti.

nevelson disegnoHa inizio la leggenda di Lady Lou, signora dal fascino magnetico, di una bellezza esaltata dal trucco ricercato e dalla stravaganza dei vestiti, intenta a raccogliere materiali di scarto in ogni angolo delle strade di New York. Detriti di vita quotidiana sottratti all’inerzia e riportati da un meticoloso intervento di recupero a sprigionare allusioni inedite. Assemblati inizialmente in libertà, questi piccoli oggetti ritrovati sono inseriti dall’artista, all’inizio degli anni Cinquanta, in morfologie ordinate, rigorose. Nascono architetture astratte, verticali, frontali. Sculture barocche simili a vetrine, contenitori di centinaia, talvolta migliaia, di frammenti di legno, trascesi nell’unità di una struttura chiusa e geometrica. Tutto è intriso di un nero profondo che si ritrova in Moon SpiKes n. 112, Moon Spikes IV, e ancora nei lavori degli anni Sessanta Night sun I, Royal Tide II, Ancient Secret III. Un colore guida dal quale la scultrice si sente scelta, «che contiene la forma, l’essenza dell’universo».

Determinate per un plasticismo dagli esiti così evocativi, il viaggio in Messico nel ‘50, dove la Nevelson aveva visitato i principali siti archeologici, impressionata non dal romanticismo delle rovine ma dall’energia ancestrale intrappolata nei luoghi. Un mondo di forze che sente proprio, come del resto l’arte africana e degli indiani d’America che entra nella sua collezione, e trapassa in queste sculture totemiche ottenendo riconoscimenti importanti come quello del Moma di New York che acquista un capolavoro assoluto come Sky Cathedral. Ma il lavoro sull’ombra conduce a un ulteriore passaggio e l’opera al nero dell’artista, all’improvviso, si rovescia in complesse articolazioni di bianco. È il richiamo della luce, ricreata ad esempio in Dawn’s Host e nei due pezzi dal titolo Columns Dawn’s Wedding Feast, parte di un’installazione interamente candida dedicata al tema nuziale, presentata al pubblico nel ’59, colore che si propaga ancora in molte sculture degli anni Sessanta.

nevelson 3Un’esplorazione che avanza poi verso l’oro, metafora di quelle strade americane che accoglievano gli ebrei da tutto il mondo, ricordo di un’antichità lussuosa, metallo che «giunge naturalmente dopo il nero e il bianco e riflette – dirà semplicemente la scultrice – il grande sole». È l’oro che scintilla in The Golden Pearl, Royal Winds, Golden Gate, il punto di arrivo nella ricerca coloristica della Nevelson, riassunta nelle tre installazioni di cromie diverse presentate alla Biennale di Venezia del ’62, che le procureranno ancora moltissimi consensi. Non è però la fine delle sperimentazioni. Le rivoluzioni scuotono gli anni Sessanta, l’artista fiuta i cambiamenti e continua a percorrere altre strade espressive. Lavora l’alluminio, il plexiglas, continua ad approfondire gli studi di grafica, elaborando tecniche di stampa anticonvenzionali. Un’ambizione costruttiva che dallo spazio astratto e mentale la porta infine a confrontarsi con quello vasto e concreto della città.

La Nevelson inizia a pensare le sculture in scala sempre più grande, come nei nove metri di lunghezza di Hommage to the Universe del ’68, e nel decennio successivo, nonostante l’avversione per le opere che escludevano la manualità diretta, realizza una serie di installazioni in metallo per alcune piazze di Chicago e di New York. Negli stessi anni attraversa, comunque, anche la semplificazione formale propria del minimalismo, visibile in Tropical Landscape I, senza però mai abbandonare quelle appassionanti accumulazioni orizzontali e verticali, quelle visioni di storie possibili sepolte nel legno, che soltanto i suoi occhi sapevano percepire.

A febbraio del ‘88, colpita da una malattia incurabile, smette di parlare, come aveva fatto da bambina quando il padre era partito per l’America. Muore due mesi dopo, desiderando reincarnarsi soltanto in se stessa.

 

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