Pier Mario Fasanotti
Altre letture: passioni, gattopardi & sciacalli

La mafia spiegata da Manzoni

I bravi di Don Rodrigo, dice Sciascia in un testo che dovrebbe essere letto nelle scuole, non erano altro che “picciotti” di Lombardia. Il che dà ragione a Roberto Saviano quando dice che “Cosa nostra” agisce anche al Nord. La Némirovsky invece è maestra nel narrare agonie esistenziali. Mentre un manipolo di scrittori si cimentano con racconti di viaggi...

Nell’ultimo, e splendido, romanzo pubblicato in Italia di Irène Némirovsky, c’è l’agonia esistenziale del quarantenne Christophe, mancato erede di un «ebreuccio» nato ai confini della Romania, James Bohum, all’inizio della sua dinamica carriera di ricchissimo imprenditore dell’acciaio e altri prodotti, poi spodestato da un rivale. Il vecchio Bohum è costretto a vivere i suoi ultimi mesi nella sua camera, in un appartamento parigino, cupo, grande e svuotato dell’arredamento più costoso e raffinato. Christophe è impiegato nella ditta che era stata fondata dal padre, cinico diplomatico della guerra, evento favorevolissimo alla vendita dell’acciaio. Christophe si annoia, il suo unico scopo è vedere scendere la sera, bere champagne in qualche bar, per poi tornarsene dalla premurosa ma scialba moglie Genévieve, il figlio fannullone Philippe e la cugina Murielle, separata da «un avventuriero da grandi alberghi», già sua amante alcuni anni prima. Con Murielle, bellezza appassita ma ancora affascinante, lui ci prova ancora, ma trova solo ricordi e solitudine.

10320-6A Christophe, testimone di una «mediocrità trionfante», piace bere per stordirsi, sognare una vita diversa, ascoltare, la sera, le donne «con voci da sgualdrine». Accetta il tristissimo e ripetitivo ménage familiare ondeggiando tra «disgrazia e speranza». Si dice convinto che tutto poteva essere diverso se avesse avuto il denaro del padre e un amore. Ma contro l’amore borbotta di continuo, dimostrando di non essere adatto a sentimenti profondi e duraturi: «L’amore? Sì, sarebbe bello se non richiedesse tante parole, carezze e bugie…. è tutto così noioso. Vorrei partire. Ma da solo, per carità, da solo! Appena provi a fare un passo senti la catena. Poveri cani che siamo…Vorrei vivere, semplicemente vivere, non soltanto sgobbare».

Quando il padre muore squassato da una tosse sanguinolenta, Christophe constata che non ci sono più illusioni su lasciti segreti. Potrebbe, se solo avesse il carattere tigresco del genitore, vendicare l’ex imprenditore e distruggere chi l’ha distrutto. Di umore instabile, non riesce a tramutare la sua collera in battaglia. È un disilluso, che sogna la propria fine nel fresco di un cimitero parigino. Solo alla fine – e non riveliamo quale – prova pietà per se stesso. Dopo aver pensato che «solo un amore smisurato può aiutare a sopportare una vita simile, ma l’amore non è un dono che viene concesso a tutti». Accantonato per qualche istante il rancore aspro che è sempre stato al suo fianco, pensa alla moglie e al figlio. Troppo tardi: «Loro erano rimasti molto lontano, in superficie, mentre lui stava affondando». Inoltre non ha voglia di rivederli. Preferisce morire con la sua abituale «smorfia sarcastica».

Iréne Nèmirovsky, Una pedina sulla scacchiera, Adelphi, 173 pagine, 18 euro

 

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Per alcuni è una noia o quasi. Per altri (mi auguro la maggioranza) il treno è una passione. Nove scrittori/reporter, o anche no, si sono cimentati nella narrazione di un viaggio: Francesco Alliata, Boris Biancheri, Giuseppe Cederna, Mario Fales, Stefano Malatesta, Matteo Pennacchi, Diego Planeta, Vito P. (è uno pseudonimo) e Stenio Solinas. In questa originale raccolta compare anche un viaggio metaforico o della memoria, costruito in un grande salone. Il treno è composto da seggiole in cinz disposte come vagoni. Lo scrittore inglese Norman Douglas (ma nato in Austria e vissuto tra Gran Bretagna e Germania) era diventato uno dei pochi cittadini onorari di Capri, assieme a Benedetto Croce. Norman, detto anche “il cattivo zio” era un omone con pessima fama. Pedofilo dichiarato, viaggiava spesso con ragazzi, che considerava i migliori e i più ricettivi compagni d’avventura. Lo “zio” con il disgustoso vizietto considerava l’Italia il paese ideale per soddisfare piaceri e perversioni, in quanto pagano con «lieve tinteggiatura cattolica».

2 Norman DouglasDopo il 1940, per le note vicende belliche, tornò nella detestata Inghilterra. Ospite dell’eccentrica milionaria Nancy Cunard (quelli delle linee marittime), formava il suo ideale convoglio, che chiamava le train bleu (nome di un famoso balletto e anche parte di un titolo di Agatha Christie). Norman si metteva il cappello da ferroviere e, con un fischietto tra le labbra, annunciava la partenza, mentre la sua amica mimava il rumore delle ruote sulla rotaia. Lo scrittore citava a memoria, e alla perfezione, tutte le stazioni, dalla Gare du Nord a Marsiglia. “Vagoni” vuoti? In pratica sì, in teoria no visto che ci pensava Nancy. Come? Sapeva imitare le voci di personaggi celebri, da Winston Churchill a Evelyn Waugh, da Sommerset Maughan a Scott Fitzgerald. Il tragitto aveva picchi di entusiasmo quando il “treno blu” sostava a Nizza: Douglas si metteva la mano alla visiera e urlava commosso: «Siamo arrivati a Nizza! Vedo le palme della Promenade des Englais!».

Nel suo racconto, Matteo Pennacchi riferisce molte cose sulla Transiberiana. Ha viaggiato con un portafoglio vuoto o quasi, approfittando di occasionali sponsor e di trovate spettacolari. Come quella, ad esempio, di mangiare gratis nel vagone ristorante dopo essersi esibito come prestigiatore. Qualche difficoltà, disinvoltamente superata, alla frontiera con la Cina, dove una severa funzionaria lo interroga e lo perquisisce. Lui racconta una balla e riesce a proseguire fino a Pechino.

Autori vari, Quel treno per Baghdad, Neri Pozza, 173 pagine, 16,50 euro

 

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Comparve nel 1972 poi nessuno lo ripubblicò. Non tante pagine, ma lucide ed essenziali per capire l’origine e l’essenza della mafia. A firma di Leonardo Sciascia, e quindi la dimenticanza è ancora più rimarchevole. Ora che è stato ristampato dal gruppo Mursia, converrebbe farlo circolare anche nelle scuole. Lo scrittore siciliano inizia a indagare sull’etimologia. Il primo vocabolario del dialetto siciliano che registra la parola mafia, spiega Sciascia, è quello del Traina, pubblicato nel 1868: «e la dà come nuova, importata in Sicilia dai piemontesi, cioè dai funzionari e soldati venuti in Sicilia dopo Garibaldi, ma proveniente forse dalla Toscana, dove “maffia” (con due effe) vuol dire miseria e “smàferi” vuol dire sgherri». Il mafioso nell’accezione isolana è sinonimo di baldanza e prepotenza da sgherro, ma è pure un miserabile. Il palermitano Giuseppe Pitrè s’azzarda ad affermare che il mafioso «è soltanto un uomo coraggioso, che non porta la mosca sul naso…. la mafia è la coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della forza individuale, unica e sola arbitra di ogni contrasto, di ogni urto di interessi e di idee, donde la insofferenza della superiorità e peggio ancora della prepotenza altrui. Il mafioso vuole essere rispettato e rispetta sempre». Insomma la colpa è degli “altri”.

Leonardo SciasciaSia il Traina che il Pitrè, spiega Sciascia, tendono a negare la mafia in quanto associazione e ad ammetterla in quanto «ipertrofia dell’io» (definizione del giurista siciliano Giuseppe Maggiore), dell’«io dei singoli siciliani». Ci fu il procuratore generale Mirabile che la pensò assai diversamente, indicando mafia come setta, associazione con precisa costituzione e regole. La sua tesi si poggiava anche su un memoriale scritto da Bernardino Verro, corleonese, che da giovanissimo pare fosse entrato a far parte della mafia. Diventato poi socialista nel movimento dei “fasci” – aspramente represso dal governo di Crispi (siciliano) – ebbe modo di combattere strenuamente “cosa nostra”. A 48 anni fu ucciso in una strada del paese del quale era diventato sindaco. Era il 3 novembre del 1915.

È curioso, a proposito di etimologia, che la parola mafia la si trova in un documento addirittura del 1658, indicandola come soprannome di una magàra, ossia di una donna dedita a pratiche di magia. La letteratura, ci suggerisce Sciascia, aiuta a comprendere il fenomeno social-criminoso che oggi ha confini mondiali. Ricordate il don Abbondio manzoniano intimorito dagli sgherri del potente spagnolo? Ecco, quei due erano i “picciotti” di Lombardia. Quando se ne andarono gli spagnoli e subentrarono nel Lombardo-Veneto gli austriaci, quel tipo di prepotenza venne sconfitta da una sanissima e incorruttibile amministrazione statale. Cosa che non è mai capitata nel meridione italiano. Oppure, se si rilegge Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, occorre soffermarci sulla figura del borghesuccio Calogero Sedara, individuo ambiguo. In un passo del romanzo il principe di Salina dice: «Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene». Annota Sciascia: «Queste iene, questi sciacalli, hanno saputo soltanto operare nella dissoluzione della classe aristocratica, e ne hanno approfittato. E quando si sono trovati al posto degli aristocratici, cioè a dirigere la cosa pubblica, a essere classe dirigente, hanno continuato a comportarsi come sciacalli, come iene: a dilaniare e divorare i beni pubblici così come avevano fatto coi beni dei loro antichi padroni. Insomma: la classe borghese-mafiosa, di cui è campione Calogero Sedara, non sa costruire: sa soltanto divorare». Particolarmente illuminanti le pagine che Sciascia dedica ai rapporti tra mafia e partiti, tra Sicilia e i “liberatori” americani che lì sbarcarono con la mediazione malefica dei mafiosi, odiati e combattuti – anche in modo discutibile – dal prefetto fascista Cesare Mori.

4 roberto savianoSe poi uno avesse curiosità di conoscere gli sviluppi internazionali della mafia – esportata per la prima volta nella città di Saint-Louis, nel Missouri – conviene leggere le tragiche vicende del narcotraffico narrate da Roberto Saviano in Zero zero zero (Feltrinelli, 18 euro). Saviano si mette a ridere, amaramente, quando sente dire dai settentrionali che nel Nord la mafia non esiste, o comunque è poca cosa. Il meccanismo di infiltrazione ce lo spiega lui: in tempi economicamente difficili – come per esempio quello che stiamo attraversando – sono taluni imprenditori a contattare il “bancomat” mafioso. Ed ecco quel che succede: l’industriale riesce ad avere soldi per la sua attività, ma passa da padrone a prestanome-impiegato. Inoltre: la droga, contenuta in container, una volta sbarcava in certi porti, come quello di Gioia Tauro. Oggi la mafia invia la merce dappertutto, Germania e Francia comprese, approfittando dell’efficienza capitalistica. I mafiosi scelgono quegli attracchi marittimi dove viene premiata la velocità e dove, per questo, sono esaminati i container secondo il metodo del campione. Maglie larghe, quindi, che consentono efficienza “produttiva”, ma anche penetrazione di cocaina e altre polveri che fanno della mafia il più potente impero economico del mondo.

Leonardo Sciascia, La storia della mafia, Barion (gruppo Mursia), 67 pagine, 8 euro

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