Nicola Fano
Pensieri (a freddo) su un grande artista

I romanzi di Jannacci

Le sue canzoni raccontavano storie e hanno coltivato l'immaginario popolare del secondo Novecento così come la letturara aveva fatto nell'Ottocento e la poesia nel primo Novecento. Un autore tra Calvino e García Márquez. Ecco che cosa abbiamo perso davvero

In morte di Enzo Jannacci è stato scritto di tutto, tranne la cosa più “scandalosa” per la cultura italiana: che era un romanziere. Forse uno dei nostri maggiori romanzieri del dopoguerra. Nel secondo Novecento il romanzo ha perso i connotati del canone ottocentesco ed è diventato un’altra cosa. È diventato un contenitore di storie slegato, ormai, dai linguaggi ai quali era rimasto legato dalla nascita (nel Seicento con l’autobiografismo) fino allo scoppio delle culture popolari (radio, canzone, cinema). Così chi ha scritto i drammi radiofonici delle origini (Nizza e Morbelli), chi ha scritto canzoni “narrative” (Jannacci, appunto, o Sergio Endrigo, poi Ivano Fossati e pochi altri); chi ha fatto film “neorealisti” e “commedie all’italiana” ha assolto la funzione di divulgatore di storie metaforiche che in passato era toccato solo ed esclusivamente ai romanzieri e agli autori teatrali. Enzo Jannacci, tra tutti questi, era uno dei migliori.

Gabriel García MárquezGiovanni, telegrafista, uno dei romanzi più struggenti di Enzo Jannacci è del 1968 (l’album del trionfo popolare, Vengo anch’io, no tu no). La storia forse la sapete: il telegrafista Giovanni si innamora di Alba (una ragazza mulatta, si badi) ma non riesce a comunicarle il suo amore: è timido. La distanza (viene trasferito) fa il resto: sennonché Giovanni innamorato, “passò prezzo caffè /passò matrimonio Edoardo ottavo /oggi duca di Windsor, /passarono cavallette in Cina, /passò sensazione di una bomba volante, /passarono molte cose ma tra l’altro /passò notizia matrimonio Alba con altro”. Ebbene, dello stesso anno, 1968, è l’uscita in Italia di Cent’anni di solitudine, pubblicato in lingua originale da Gabriel García Márquez l’anno prima.

Anche qui, nel romanzo di García Márquez c’è un amore consumato per telegrafo, struggente come quello di Jannacci, ma che si concluderà con uno sposalizio: Jannacci non era tipo da allietare i finali, nemmeno nel pieno delle speranze del Sessantotto. E del resto García Márquez aveva fatto sposare i due amanti telegrafati per mandare avanti la sua storia che doveva durare cent’anni, e non di meno.

italo calvinoMa questo è solo un esempio possibile: che dire di Quella casa in Lombardia (1964) scritta da Franco Fortini e Fiorenzo Carpi e interpretata magistralmente da Jannacci? E che cosa dello “sguercio” che Faceva il palo (1966) nella banda dell’Ortica? Che dire di Vincenzina e la fabbrica (1975) de La fotografia (1991) o di Come gli aeroplani (2001)? Il fatto è che la canzone (la grande canzone) ha dato alla cultura popolare sostanza e immaginario più (e meglio?) di tanta vera e propria letteratura. Jannacci era come Calvino, in parte come Pasolini: ma meglio di entrambi ha lasciato i germi delle proprie storie nella memoria popolare. Al punto che molti tratti della società italiana hanno messo radici nel nostro sapere comune più attraverso le canzoni di Jannacci che non in tanti romanzi che sicuramente hanno avuto meno circolazione e meno peso specifico nei saperi degli anni Sessanta, Settanta, Ottanta. Per non parlare della saggistica o dei documenti ufficiali che spesso perdono le tracce delle vite reali; perdono il senso, la verità e il colore delle storie raccontate dalle canzoni.

i soliti ignotiQuel che conta, in questo fenomeno, è il rapporto diretto, senza mediazioni “intellettuali” con il pubblico: un privilegio riservato solo ai comici da teatro e ai cantanti. Entrambi godono della fiducia del loro pubblico perché danno loro la sensazione di vivere la medesima vita, le medesime privazioni, le medesime illusioni. Cantanti, comici e spettatori condividono lo stesso immaginario. Un’altra prova? Pensate a quel poveraccio che, credendo di fare il palo di una banda di ladri disperati, finisce a fare il mendicante senza neanche accorgersene… Ebbene, siamo nello stesso contesto sociale dei Soliti ignoti, della Banda degli onesti: realtà, umanità, miseria e comicità sono tutt’uno. È di questa grande famiglia che faceva parte Enzo Jannacci.

Ecco perché è qualcosa di più che un poeta-cantante, ciò che piangiamo: è un pezzo della nostra memoria, è un artista anzi che la nostra stessa memoria ha contribuito a inventare e codificare. Al punto che oggi chiunque di noi non abbia vissuto (nelle pienezza della vita adulta) l’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta può legittimamente credere di conoscerne i meccanismi interiori grazie alle canzoni di Enzo Jannacci: veri e propri romanzi mandati a memoria.

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