di Nicola Fano
Un altro lutto nel mondo del teatro

Addio a Massimo Castri

È morto a settant'anni un maestro della regìa: Massimo Castri. I suoi spettacoli avevano cambiato l'idea stessa del "dramma borghese", riportando la drammaturgia italiana nel novero del dibattito europeo del Novecento

Troppo facile dire che la cultura italiana, dopo la morte di Massimo Castri, è più povera. Questo lutto è qualcosa che va oltre l’evento di cronaca: è un evento nodale per il nostro immaginario e la nostra identità artistica. Massimo Castri era un maestro della regìa teatrale. L’ultimo – insieme a Luca Ronconi che ancora faticosamente resiste – di una scuola che ha fatto grande nel mondo il teatro italiano del Secondo Novecento. Il suo nome va messo accanto a quelli di Strehler, innanzi tutto, ma anche di Luigi Squarzina, Mario Missiroli e, appunto, Ronconi: una scuola unica nel proprio genere. Ebbene, la sua scomparsa (per altro quando aveva ancora solo settant’anni e quindi quando ancora si poteva sperare in nuovi azzardi, nuove invenzioni, nuove sperimentazioni da parte sua) segna la fine di un’èra. Senza che il ricambio sia né fecondo né a portata di mano.

Castri esordì come attore negli anni Sessanta proprio con Strehler, ma è del 1972 il suo debutto come regista. Salvo che alla fine di quel decennio, alla guida del Teatro La Loggetta di Brescia si impose come uno degli spiriti critici più forti e innovativi del nostro teatro. Soprattutto con una serie di importanti regìe pirandelliane (Vestire gli ignudi, 1976; La vita che ti diedi, 1978; Il piacere dell’onestà, 1984) e di Ibsen (Hedda Gabler, 1980; Il piccolo Eyolf, 1985), avendo come “muse” prima Valeria Moriconi e poi Annamaria Guarnieri. Ma si tratta di spettacoli che all’epoca suscitarono reazioni molto contrastanti, tanto era forte il loro impatto sperimentale: qualcosa che oggi – nel piattume della proposta teatrale complessiva – è addirittura impensabile. La lezione di Castri è stata rilevantissima per una ragione, soprattutto: i suoi interventi di regìa erano di fatto analisi critiche molto approfondite, basate anche su un lavoro drammaturgico rivoluzionario. Al punto che i classici che portava in scena erano di fatto smontati (battuta per battuta) e riscritti secondo un disegno critico-analitico sempre molto riconoscibile (qualcosa di simile a ciò che faceva negli stessi anni Orson Welles con Shakespeare).

Sicché oggi sarebbe impensabile, per esempio, studiare Pirandello e i suoi rapporti con la drammaturgia europea dei suoi tempi prescindendo proprio dalle regìe di Castri. Il lavoro parallelo di Castri sull’autore siciliano e i maestri del dramma borghese (Ibsen e Strindberg) ha aperto uno squarcio sul teatro del Novecento. E quando poi egli si misurò con altri classici apparentemente lontani da quel clichè creativo (da Goldoni, di cui fece sia i Rusteghi sia la Trilogia della villeggiatura, a Kleist o Schnitzler) seppe trovare in essi gli stessi germi del dramma borghese.

Poiché questa era la poetica di Castri: accompagnare lo spettatore alla radice di classe dei conflitti. Ma non in chiave “marxista” (non esclusivamente, almeno) bensì in chiave intima (non intimista). E infatti anche le sue più recenti regìe dedicate ai classici greci (da Sofocle a Euripide) sembravano indicare una via “borghese” alla tragedia: come se tutto in fondo potesse diventare “dramma intimo” e familiare più che epopea o ritualità globale. Come dire: il nostro destino è ripiegarci su noi stessi; la crisi delle aspettative politiche della società occidentale è definitiva, irresistibile e insita nella cultura occidentale stessa.

Ecco di che cosa ci lascia orfani Massimo Castri: della convinzione che per fare teatro servono idee critiche; serve “una certa idea del mondo”. E la sua lunga, fruttuosa militanza dentro i teatri pubblici (dopo Brescia fu la volta di Prato, Perugia, Torino) resta lì a dimostrare che il connubio stato-arte ha una sua ragion d’essere. A patto che in cima a tutto ci siano le idee.

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