Anna Camaiti Hostert
Cartolina dall'America

Piovono statue

Dopo l'omicidio razzista di George Floyd, negli Usa cadono le prime teste. Ma sono teste di piombo, come quella del generale Robert E. Lee, schiavista e razzista che perse la guerra civile ma per molti resta un mito. Da abbattere, appunto

Negli stati dell’Alabama, della Virginia, della North e South Carolina, del Mississippi, del Tennessee, del Kentucky e perfino della Pennsylvania e dell’Indiana si succede ormai da giorni, dopo l’uccisione di George Floyd, una furia iconoclasta contro i monumenti e le statue dei generali dell’esercito confederato. In particolare contro quella del generale Robert E. Lee comandante in capo delle forze confederate dell’esercito sudista che si batteva a favore del mantenimento della schiavitù ed era egli stesso proprietario di molti schiavi. Abolita dopo la Guerra civile da Abraham Lincoln, la schiavitù che marchiava a sangue le carni degli afroamericani ha sfregiato anche i cervelli di quei suprematisti bianchi che non volevano abbandonare i loro privilegi. Ma bisogna comprendere che la bandiera dell’esercito confederato e i suoi generali sono il simbolo di un America cresciuta e prosperata sullo sfruttamento degli schiavi e poi sulla loro segregazione. Un simbolo che i suprematisti bianchi del Ku Klux Klan adottano ancora oggi nelle loro manifestazioni.

Tutto ciò e giusto? È giusto cancellare le testimonianze storiche di un passato di sfruttamento e violenza inenarrabile che pure sono testimonianza di quei tempi? Qui è opportuno, prima di decidere se sia giusto o no, farsi delle domande che sono tuttavia anche considerazioni morali.

Per chi è stato oggetto di una violenza cosi efferata, gli afroamericani, che ancora muoiono a causa di quel retaggio, è giusto vedere celebrati come eroi quelli che hanno perpetrato tali soprusi nei loro confronti? Non solo, ma quei personaggi erano fautori della schiavitù anche dopo la sua abolizione e non volevano lasciare liberi esseri umani che ne avevano diritto, dopo la guerra civile, anche se ipocritamente la scelta era lasciata agli stati. Ebbene un tributo a coloro che continuavano invece a ritenerli una loro proprietà, un oggetto di loro appartenenza è plausibile? Tra questi c’era il generale Lee, che, si dice, si macchiò anche di violenze fisiche nei confronti di certi schiavi che volevano essere liberi.

Sulla storia dello schiavismo c’è un film recente, del 2019, Harriet (oltre all’ormai celebre 12 anni da schiavo del regista nero Steve McQueen, vincitore di numerosi Oscar) su Harriet Tubman (1822-1913), la schiava abolizionista che salvò molti afroamericani dalle catene facendoli scappare negli stati dell’Unione dove invece era stata abolita. Nel film si possono vedere non solo le violenze perpetrate sui neri, ma anche la disparità di trattamento tra i differenti stati americani.

È ormai da tempo che negli Stati Uniti si dibatte se sia il caso di togliere la bandiera confederata da certi palazzi istituzionali degli Stati del sud e alcuni l’hanno già fatto. E ci sono poi certi monumenti che celebrano i generali di quell’esercito, come il generale Lee, che la guerra civile la perse, tutti proprietari di schiavi che hanno costruito le loro fortune e il loro potere proprio sullo sfruttamento della loro manodopera. Ebbene, alcuni discendenti di quegli schiavi, credo a ragione, considerano un’offesa riverire questi personaggi che hanno negato un memorial a chi è stato cancellato dalla storia senza avere neanche un ricordo tangibile: migliaia di schiavi sono stati spremuti come limoni e poi lasciati morire senza neanche una tomba dove poter essere pianti.

Il New York Times già dal 2017 quando queste discussioni erano solo agli inizi ha scritto in un editoriale collettivo che il nuovo corso è travolgente ed è difficile prendere una posizione (oggi la pensa diversamente) facendo scorrere opinioni diverse di destra e sinistra, contrarie e favorevoli, ma tutte però d’accordo nell’affermare che era giusto che i confederati perdessero la guerra. Nessuno, neanche a destra, sembra essere scandalizzato dal fatto che si parli del voler eliminare certi monumenti. Certo tra i commenti ne spicca uno di un giornalista di sinistra che vale la pena ricordare: «Vi siete mai chiesti perché non ci sono statue di Hitler a Berlino?».

Le distruzioni o la copertura con vernici colorate di molte statue in questi giorni vedono spesso coinvolti anche molti senatori, governatori e sindaci, in maggioranza democratici. Anche Nancy Pelosi si è dichiarata favorevole a rimuovere i simboli dei confederati da Capitol Hill. Eccetto Trump, il quale si ostina a volerli mantenere cosi come sono. Perfino alcuni dei suoi collaboratori tra cui il segretario delle Forze armate Ryan McCarthy e Mark Esper che già era in disaccordo nel volere inviare l’esercito contro i manifestanti, si sono dichiarati disposti a trattare sul tema in campo militare.

Il sindaco Randall Woodfin di Birmigham Alabama, uno stato in cui, voglio ricordare, l’ultimo nero è stato ha linciato e appeso a un albero dal Ku Klux Klan nel 1981, ha urlato a chi aveva cominciato appunto a distruggere la statua commemorativa dell’esercito confederato: «Fatemi finire il lavoro che avete cominciato voi»: dopo due giorni il monumento era scomparso. Come riporta il Washington Post, molte sono ormai le statue che saranno fatte sparire in tutto il paese nei prossimi giorni: dal Kentucky, all’ Arizona, alla Florida.

«Le nostre strade sono piene di rabbia e di angoscia, testimonianza di decenni di razzismo contro i neri americani. Il tempo è scaduto. Queste lapidi funerarie dovranno essere eliminate» – ha detto il sindaco di Indianapolis Joe Hogsett. Il governatore della Virginia Ralph Northam ha ordinato la rimozione di una statua del generale Lee a cavallo. E potremmo fare un lunghissimo elenco di queste prese di posizione in tutto il paese che sembrano stare dietro allo spirito che lo pervade. «Se non li rimuoviamo noi, li tireranno giù i manifestanti», ha detto un assessore nero di Rocky Mountain in North Carolina.

Certo, tutto ciò appare il frutto di una rabbia repressa e contenuta per troppo tempo. Ma con essa bisogna stare attenti a non buttare il bambino con l’acqua sporca. Certo, da italiana, mi può dispiacere che la statua di Cristoforo Colombo sia stata sfregiata e fatta cadere in Minnesota o decapitata a Boston perché con lui, secondo i manifestanti, sarebbe cominciato il genocidio dei nativi americani. Capisco certe prese di posizione, però qui devo fare una distinzione. C’è una differenza enorme tra i tempi storici in cui non esisteva la dignità della persona, tempi precedenti alla rivoluzione francese come quelli di Cristoforo Colombo e quelli successivi in cui si sancì che ogni essere umano, come diceva lo stesso Kant, era individuum ineffabile. E questo accadeva prima della guerra civile americana. Nonostante ciò si procedette a trattare essere umani come delle bestie. No, questo non è accettabile.

Ritengo tuttavia disonesti e anche demenziali tutti quei tentativi di volere sfruttare il momento per tirare, come la trippa, la storia a piacimento da una parte o dell’altra. Inferendo che episodi irrilevanti e isolati che riguardano alcuni personaggi famosi siano prova di razzismo come nel caso, qui in Italia, di Indro Montanelli di cui si propone di togliere la statua a Milano o come quella dei supermercati svizzeri che tolgono dagli scaffali i cioccolatini moretti a causa delle proteste antirazziste. No, le distinzioni devono essere fatte, perché le esasperazioni della political correctness portano poi all’elezioni di personaggi come Donald Trump.

Ho sentimenti ambivalenti invece riguardo al bandire dalle piattaforme televisive Via col vento,  come ha fatto HBO Max, perché favola sì razzista, dove i neri sono solo domestici, sanno appena parlare e dove Hattie McDaniel che vinse un Oscar come migliore attrice non protagonista, non poté sedere al tavolo con i suoi coprotagonisti e Selznick, ma ad un tavolo separato con il suo accompagnatore anch’egli nero, ma anche icona di uno star system con cui siamo cresciuti che forse n questo caso è eccessivo purgare per cercare di pulirsi la coscienza. E denunciare il razzismo dei tempi. Così mi viene in mente una serie televisiva di Netflix che ancora una volta ha preceduto i tempi: Hollywood. È una favola che accanto all’esibizione del razzismo, della misoginia dell’omofobia di quel mondo negli anni appena successivi alla seconda mondiale, racconta una storia immaginata, una sorta di wishful thinking in cui uno sceneggiatore nero e gay fa un film di cui un asiatico fa il regista e un’attrice nera riesce ad ottenere il ruolo di protagonista e a vincere l’Oscar. Anche questo è un modo per denunciare la storia!

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