Alberto Fraccacreta
Nell’officina del poeta: un'intervista

L’attrito di Magrelli

Per Šklovskij il linguaggio della poesia è rallentato e potente come un treno in frenata. Per l’autore di “Ora serrata retinae” è un continuo esperimento. E così la sua poetica è in perenne evoluzione. Vedi l’ultima raccolta “Il sangue amaro”…

Valerio Magrelli è un poeta raffinato. Costretto a sostenere oggi il peso enorme della tradizione lirica di appartenenza, plasma una lingua aderente alla téchne contemporanea senza creare fratture. È quasi un miracolo. Una diversificazione che si amalgama. Un’arteria che si dissangua e si riassesta da sola. Rompe con la tradizione, permanendo nel solco di essa. L’avanguardismo della sua opera, se guardato sotto una particolare lente critica, appare come perfetta fedeltà, o meglio come conseguenza necessaria. Un’evoluzione per sopravvivere.

Magrelli è poeta doctus nel senso più ampio del termine. Condivide con i maggiori rappresentanti della sua generazione – parlo di Heaney, Walcott, Zagajewski – quel pensiero di amplificazione infinita dell’immagine che può tradursi in una inconsapevole, quanto geometrica “trascendenza nel reale”. Dal punto di vista dell’impostazione del verso, il suo sembra però connotato da una forza immanente che si gonfia fino alla propria naturale esperibilità. Il trascendente resta, per così dire, inespresso, nel Non detto.

In Guardando i resti di un’audiocassetta, poesia topica di Disturbi del sistema binario (Einaudi, 2006), Magrelli chiede al lettore un tozzo di attenzione per la sua personale domanda di beatitudine: «Sul ciglio dell’autostrada oscilla/ e brilla bruna una capigliatura/ di nastro magnetico./ Ogni auto passandole accanto l’accarezza/ col vento dei pneumatici/ pettinandola lenta sul guard-rail./ Una muta medusa che le onde/ sospingono a riva fluttuando,/ morta cosa canora, alga di nostalgia./ Se fisso quel feticcio musicale,/ una spugna essiccata di voci, è per chiedermi/ dove può evaporare un suono,/ quale futura nube ne tratterrà le note/ per preparare, domani,/ la sua pioggia». La capigliatura di nastro magnetico è solo un nastro magnetico? Credo sia piuttosto un’interrogazione: dove posso guardare? Quale occhio mi dice quello che sono, mi suggerisce ciò che è?

POESIAFESTIVAL  2014photo Serena Campanini-Elisabetta BaracchiIn effetti, il poeta è sempre uno sradicato, che, per quanto rivolga il suo pensiero all’immanenza, chiede ed esige una stabilità definitiva, una patria d’essere, un genius loci, lo spirito del luogo, entro un nonluogo reale e condiviso. Questo posto è l’alterità, espressa per mezzo della parola. Ma a essa si contrappone ciò che Simone Weil chiama, appunto, “sradicamento”, che è contrario all’esigenza dell’anima. «Non siamo a casa neanche a casa nostra,/ anche la nostra casa è casa d’altri,/ la casa di qualcuno arrivato da prima/ che adesso ci caccia./ Vengono a sciami/ si riprendono casa,/ la loro casa,/da cui ci scuotono via,/ punendoci per la nostra presunzione:/ essere stati tanto fiduciosi/ da credere che il mondo si potesse abitare» (Il sangue amaro, Einaudi, 2014).

Come inquadra l’ultimo lavoro lirico Il sangue amaro all’interno della sua opera? E quale tragitto c’è stato da Ora serrata retinae fin qui?
«
C’è sempre stato un progresso, sotto un profilo progettuale, intendo. Penso che la mia poetica sia mutata molto nel tempo, a seconda delle urgenze esistenziali che venivano costituendosi. L’idea di un nuovo libro è costantemente legata a un cambiamento radicale. Questo lo è “sconcerto” che si prova dinnanzi alla vita, ogniqualvolta si presenti l’opportunità di un’accurata riflessione. Ecco, la stesura di una nuova silloge nasce proprio dall’esigenza particolare di una richiesta d’aiuto. Dopo otto anni da Disturbi del sistema binario, ho pensato che era il momento propizio per sopperire a tale richiesta. Il lavoro strutturale dell’opera è stato assai tortuoso, perché si è trattato di rielaborare il materiale grezzo dandogli, ad esempio, una fisionomia specifica. Basti pensare che per alcune poesie ho adottato il rondinet, una forma metrica legata al rondeau, che consta di dodici versi e due rime. Ho lavorato, cioè, per riadattare quel materiale alla nuova struttura che avevo in mente».

È un po’ quello che Heaney definiva il «lavoro della poesia».
«
Esattamente. La poesia necessita di una disciplina e di un’elaborazione peculiare».

Verso cosa tende quella sua – così è stata definita da Piccini – «claustrofilia del verso»? Fa parte dell’attenzione del poeta?
«È vero, c’è un senso di controllo che caratterizza la mia attenzione nei confronti del verso, ma sotto un’ottica che potremmo definire “compositiva”. Non ha a che vedere propriamente con la “qualità” del verso; qui le prospettive variano abbastanza. Basti guardare, come si diceva prima, alla variegatezza della mia evoluzione poetica: in Ora serrata retinae quei temi politici affrontati nelle ultime sillogi erano impensabili».

Questo senso claustrofobico può avere un legame, ad esempio, con la pittura di Morandi, tanto per associarlo a un campo estetico differente?
«
Certo, ci sono delle analogie. Morandi è un pittore che adoro: mi piacciono le sue immagini ferme, l’estrema concentrazione degli oggetti, il fatto che la scena sia perennemente assorta. Morandi ha un solo soggetto centuplicato, ripetuto allo sfinimento per meglio inquadrarlo nella sua idea di realtà, mentre io ho cambiato poetica, ho acquisito soggetti più disparati che tento così di fagocitare».

L’oggetto conchiuso, espresso nella «claustrofilia», non ha dunque una possibilità di trascendenza.
«No, c’è una condanna all’immanenza. Il gioco consiste proprio nel dare all’immanente il valore più alto concepibile, senza l’eventualità di una fuga ulteriore».

In Porta Westfalica, uno dei suoi esiti più importanti, per usare un’espressione del Montale delle Occasioni, il «nome agisce». L’occasione-spinta cosa cela dietro all’oggetto?
«
Anche qui ricordo quanto a lungo abbia lavorato sul testo per conferirgli una legittimazione espressiva. La ripresa del verso riguardante l’autista che “attende perplesso” è, ad esempio, un omaggio a Robert Frost. Porta Westfalica è un’interrogazione ossessiva del nome, una sorta di cratilismo, l’idea cioè che il linguaggio non sia arbitrario. Sappiamo dalla linguistica strutturale di Saussure che il linguaggio è invece una convenzione fra parlanti. Chi scrive però tenta, talvolta, una strada diversa».

A questo proposito, la poesia può avere un potere “epistemologico”?
«
Sì, senz’altro. Il poeta cerca un senso, investe la sua poesia di una forza. In Cave cavie! cerco di spiegare la mia idea di testo poetico: è un continuo esperimento, un provare ad acquisire realtà».

Anche se tentassimo di scomporre Porta Westfalica, di riprodurla in scriptio continua, conserverebbe la sua energia poetica. La sua spinta. Qual è la differenza della poesia?
«
Per dirla con una battuta di Viktor Šklovskij, la poesia è un linguaggio rallentato, frenato, come di un treno che stia cercando di arrestarsi e che provoca un attrito, di cui il linguaggio quotidiano non ha precisa nozione. Non riesce a contenerlo. La poesia dimostra così un’intensità che non si può trovare in nessun atto linguistico».

Il suo “secondo mestiere” è quello di professore di francesistica presso l’Università degli Studi di Cassino. Qual è il suo rapporto con la poesia francese?
«
Nessuno in particolare. Sono stato maggiormente influenzato dalla cultura francese tout court. Penso a Proust, al romanzo sperimentale, alla saggistica. Certo, riconosco che Henri Michaux sia uno dei più grandi poeti del secolo scorso. Ma, in generale, la poesia francese ha contato meno rispetto ad altre forme espressive, come la prosa».

Appunto. Lei è anche autore di alcuni premiati testi in prosa. Gli ultimi Geologia di un padre e Lo sciamano di famiglia, dedicato al suo rapporto personale con Fellini. Quale differenza sussiste nel meccanismo della scrittura? Come si approccia alla poesia e come alla prosa?
«
È una domanda molto interessante. Credo che poesia e prosa abbiano due sistemi respiratori diversi. Per molti anni ho conservato gelosamente l’idea che non sapessi scrivere in prosa. In effetti, c’è un tipo di narrativa che non so scrivere: la cosiddetta fiction. Ho provato, invece, con l’autofiction, il racconto “variato” che riguarda la vita, e ho notato che mi è molto più confacente. Quando scrivo in prosa di solito adotto lo stile autobiografico, naturalmente nel segno della divagazione».

Lei è un autore Einaudi, praticamente l’unica grande casa editrice che pubblica ancora i poeti contemporanei. Quale futuro vede per la poesia in Italia? Non crede che la crisi sia, in questo senso, quasi straziante?
«
Più che straziante, la chiamerei “cronica”: la poesia vive della sua crisi, fa della crisi la sua forza. Mi preoccuperei, invece, del totale deprezzamento della cultura a livello nazionale. È importante, in questi frangenti, non abbassare le armi».

E che consiglio dà a un giovane poeta o scrittore che vuole affacciarsi all’attuale mondo editoriale?
«
Leggere molto e, soprattutto, frugare, cercare su riviste telematiche. Avere la curiosità e lo spirito critico giusti. C’è stato un grande scadimento dei giornali da qualche anno a questa parte. Sul web, invece, si trovano delle risorse molto interessanti. Leggo quasi ogni giorno alfabeta2 e Doppiozero. Tra l’altro, curo una rubrica su Il reportage, che si chiama Didascalie. Credo che il panorama sia abbastanza ricco per chi voglia avvicinarsi alla letteratura. Una cosa è certa: bisogna far uscire la poesia dalle catacombe. Sono fiducioso e convinto».

(…) Eppure qui sta il segno, qui
si strozza la terra,
qui sta il by-pass, il muro
di una Berlino idrica in mezzo
a falde freatiche, bacini artificiali,
e la pace e la guerra e la lingua latina.
Niente. E mentre giro nella foresta penso
all’autista che attende perplesso,
all’autista che attende perplesso
e ne approfitta per lavare i vetri
mentre nel suo brusìo
sotto il cruscotto scorre sussurrando
il fiume del tassametro, l’elica del denaro,
diga, condotto, sbocco, chiusa dischiusa, aorta,
emorragia del tempo e valvola mitralica,
Porta Westafalica della vita mia.
(Da Porta Westfalica)

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