Danilo Maestosi
Diario veneziano/1

Una Biennale comoda

Dopo un anno di stop torna la Biennale d'Arte. Ma evita conflitti e cattive memorie (dalla guerra al Covid) per trasformare tutto in un grande party. Per fortuna, ci pensano Anselm Kiefer e Anish Kapoor a dialogare con il nostro difficile presente

A mente fredda, le immagini che restano a registrare con più aderenza i cinque giorni di vernissage di questa Biennale d’Arte, che riapre i battenti dopo due anni e un terzo di sosta forzata, sono quelle sfarfallanti, sfocate di una festa contagiosa e straripante. Venezia intasata di folla come ai tempi delle vacche grasse, più di mezzo milione in una settimana, alberghi e locande strapieni, i tavolini dei bar e dei ristoranti dove è un miracolo trovar un posto, coppiette e bande di giovani stravaccati dove capita a riposarsi, scambiarsi risate ed effusioni, sbronzarsi, tirar tardi. Infinite code un po’ ovunque, subite con insospettabile pazienza. Dai vaporetti, ai musei. E in fila tra l’andirivieni dei turisti qualunque, il popolo degli addetti ai lavori, richiamati dall’occasione, venuti a vedere e a farsi vedere: artisti, galleristi, curatori, studenti, cronisti specializzati e mondani, superesperti con i capelli bianchi. Li riconosci dalle borse di stoffa di cataloghi, depliant, piantine che sventolano come bandiere. Molti dalla stravaganza degli abiti e dei colori, cappelli da esploratori, capelli a cresta e meches di tinte squillanti, magliette con i loghi delle mostre.

Contenti comunque di star qui, pochi i mugugni d’insoddisfazione, magari verranno dopo. Una festa ritrovata che vale doppio: non è solo il riattivarsi collettivo dei corpi dopo il lungo back out della pandemia, sono i mestieri dell’arte costretti a chiuder bottega che si rimettono in moto, contatti vecchi e nuovi da riallacciare, nuove idee da catturare al volo. E guai restar fuori dall’onda. Un Carnevale posticipato alla fine della Quaresima dove non sembra ci siano ruoli sociali da ribaltare, troni da sbeffeggiare o conquistare anche per poche ore. Dove abbassate le mascherine, in molti lo fanno senza cautele, vedi volti che indossano altre maschere.

Insomma una folla addomesticata dal copione stesso di questa cinquantanovesima edizione della Biennale che esalta la rivincita delle artiste donne, dopo un secolo d’emarginazione, ma avvolge la rabbia con la carta oleata della magia, suggerisce nuove frontiere di liberazione e riconquista nei territori della fantasia. Molta pittura, poche istallazioni, un profluvio di didascalie che ti inondano di parole difficili da digerire per orientare lo sguardo, nessun pugno allo stomaco. Il massimo di trasgressione certificata per un pubblico adulto e bambini accompagnati è la partecipazione a un chiassoso party di un simpatico duo di attempate drag queen, Jacob Lena Knebl e Aslhey Hans Scheirl, che inaugura il padiglione concesso dall’Austria. Dentro una serie di stanze coloratissime arredate a loro gusto con mobili di arzigogolato e sfottente design, davanti ai quali le due artiste, mantelli di pelliccia rosa e parrucche platinate che spesso si tolgono a scoprire rughe e calvizie, brindano e posano allegre per chi è in cerca di un selfie ad effetto.

Katharina Fritsch, “Elefant”

Chi vuol esser lieto sia nel diman non c’è certezza. Già, perché questo clima di ebrezza condivisa impone inesorabilmente il suo prezzo. Un furore d’oblio che offusca e cancella le voragini d’angoscia del presente e d’uno ieri non ancora lasciato alle spalle. Tra le opere in mostra, oltre un migliaio, non ce ne che una, uno spezzone di documentario girato in Venezuela, che concentri la riflessione sul Covid, una tempesta che ha investito il mondo, generato allarme, imposto solitudine, convivenze forzate, paure e conflitti, silenzi e panorami di città svuotate mai visti. Possibile che in due e più anni gli artisti non abbiano trovato modo, voglia di elaborare almeno uno di questi temi e presentarli su questa ribalta di assoluto richiamo internazionale? Più probabile che chi lo ha fatto sia stato escluso dalla regia di questa manifestazione, che pure ha scontato vistosamente il contrappasso del Covid non solo con un anno di ritardo, cosa che a Venezia è avvenuta solo in piena seconda guerra mondiale, ma con la necessità di operare la sua selezione in contumacia e a distanza su filmati e materiale fotografico. Un rimedio, si vede.

E poi la guerra. Anche questa è stata espulsa, rimossa dal palcoscenico. Gli orrori dell’Ucraina occupata dai carri armati sovietici, la brutalità degli eccidi, le paure di una pace che non si trova, a poche centinaia di chilometri da qui sono da due mesi negli occhi e nelle orecchie di tutti, ma in Laguna sono state liquidati da una mostra omaggio, doverosa e leccata ma senza peso. Più forte, almeno simbolicamente, il messaggio destabilizzante del padiglione russo, da sempre tra i più gettonati, chiuso per volontà degli stessi artisti.

D’accordo, c’è stato poco tempo. Ma allora perché la rimozione è stata estesa ad altre guerre certo meno vicine all’Europa, ma non meno devastanti che durano da anni e hanno innescato fenomeni di emigrazione, barriere di rigetto mai visti. No, il sospetto è che la decisione di questo colpo di spugna corrisponda ad un preciso calcolo nella cabina di comando della Biennale, dalla volontà di non invadere più di tanto, con problemi scomodi e divisivi, visioni scioccanti, i territori più scottanti del presente. Molto meglio la paccottiglia kitsch che fa tanto pop e non disturba nessuno. Per non rovinare la festa. E non scompaginare la confezione della manifestazione principale, non inquinare di polemiche il dichiarato ottimismo di fondo che ha guidato la curatrice Cecilia Alemani a concentrarsi sulla rilettura storica del passato per rilanciare la presenza e il ruolo di avanguardia delle artiste donne che il monopolio maschilista del sistema dell’arte ha ignorato E poi di indirizzare lo sguardo sulle prospettive di speranza e di positivi radicali cambiamenti che, riconquistata la scena dell’arte, il contributo della sensibilità femminile dovrebbe dischiudere per risolvere le emergenze incalzanti del futuro: dalle minacce spossanti e disumane della tecnologia alla scelte da mettere in campo per evitare la distruzione del nostro pianeta recuperare un rapporto più corretto ed equilibrato con le altre componenti dell’universo animale, vegetale e inorganico.

Non una novità assoluta per chi segue il mondo dell’arte. A Roma, due anni fa, l’ultima Quadriennale fu quasi interamente costruita su questa traccia, la Galleria nazionale gestita da Cristiana Collu sta da anni costruendo su questo recupero della creatività femminile il suo cartellone. E in altri paesi d’Occidente si batte questa strada da molto prima. È diventata moda.

Ma per Venezia è la prima volta in assoluto nell’arco di più di un secolo di vita. Le firme di donne inserite in esposizione e in catalogo nella mostra centrale, intitolata Il latte dei sogni, in omaggio a Leonora Carrington, scrittrice, pittrice e protagonista di primo piano del movimento surrealista, sono poco meno di duecento, l’ottanta per cento dei partecipanti. Era anche la prima volta che ad una donna italiana veniva affidato questo ruolo di direzione. Comprensibile il timore che ha spinto Cecilia Alemani, abile diplomatica cresciuta e addestrata nel clima inclusivo e politicamente corretto di New York, ad evitare di essere etichettata come una vetero femminista col coltello tra i denti, come quelle che cantavano in corteo «Tremate, tremate, le streghe son tornate». Per questo ha annacquato con toni sommessi le sue rivisitazioni all’indietro, inclusi in cinque siparietti separati, i più convincenti, e accentuato questa cautela nei capitoli riservati alla produzione attuale e nell’epilogo riservato agli scenari futuribili. Ne è uscita una mostra sbilanciata, che parte bene e precipita nel finale. Ma è un’analisi su cui mi soffermerò più a lungo in una seconda puntata del mio diario veneziano.

Il risultato è però che questo dosaggio di convenienze, convincimenti personali e prudenza, condiviso ed esteso dai curatori degli oltre ottanti paesi presenti con un proprio Padiglione sulla Laguna riverbera i suoi effetti sull’intera manifestazione, allontanandola il più possibile dallo scomodo impatto con il presente. Viva la festa dunque, volta le carte e sparisce ogni orrore, ogni angoscia perché domani andrà meglio. Cerca di rassicurarci con questo proclamato happy end Cecilia Alemani, ma chissà se ci crede davvero e non voglia piuttosto rassicurare se stessa.

Curioso paradosso, però, che scompagina tutto, questa messa al bando dell’universo spaesante e minaccioso dell’oggi, perché apre una vistosa falla nel sistema di alimentazione della locomotiva su cui viaggia da una trentina d’anni il circuito ufficiale dell’arte. Solo traffico ad alta velocità, i poveri e i pendolari s’arrangino, solo vagoni e tariffe di prima classe, un’unica stazione d’arrivo: l’eterno presente. Le altre poche soste concesse alla borsa dell’usato sicuro e dei nomi che già fanno museo.

Non è un caso che a infrangere questa tregua di quiete e bassa temperatura emotiva imposta al pubblico della Biennale siano due maestri superpremiati, che è ormai impensabile detronizzare, una fama e un’età che gli concede piena licenza di provocazione e di sgarbo. Grandi firme chiamate a rinforzo qui in Laguna ma in due postazioni fuori cornice: il tedesco Anselm Kiefer e l’angloindiano Anish Kapoor. Sono loro le poche cose da non perdere che personalmente ho trovato.

Al primo sono state consegnate per l’occasione le chiavi di Palazzo Ducale e il compito di ambientare un intervento site-specific delle sue sale più grandi, quella degli scrutini, dove la Venezia dei dogi consumava il rito conclusivo delle elezioni. Ci si arriva dopo aver percorso altri scrigni di capolavori e se ne esce scendendo nelle segrete delle prigioni verso il Ponte dei sospiri.

Dal Paradiso all’Inferno e viceversa. Come il viaggio immersivo che ha modellato senza sconti e ammiccamenti di cronaca sulle domande senza tempo con cui il nostro tempo ci incalza, coprendo con pannelli dei suoi interventi materici, tra pittura ed inserti d’arte povera, le tele d’epoca di celebrati maestri che tappezzavano le pareti, ma lasciando a vista, come contrappunto teatrale, il soffitto affrescato. Il prologo nell’atrio, una valva di conchiglia a semicerchio dove in basso si stagliano come colonne portanti varie cataste di libri bruciati e in alto un mosaico di piccoli legni combusti allineati come le croci di un cimitero di guerra.

La morte come traguardo inesorabile e crudele, qualunque sia la sua origine e la sua forma. E la cultura che ci sbatte in faccia le sue macerie ma anche la sua forza profetica con una scritta in calce che battezza l’intera installazione: questi scritti quando verranno bruciati daranno finalmente un po’ di luce. Sono le chiavi che Kiefer ci consegna per decifrare il cupo spettacolo che ci aspetta nel salone, immerso nel buio, fasciato dai toni d’asfalto delle sue pennellate. A destra c’era e resta coperto il quadro seicentesco di un Giudizio Universale. Kiefer lo ha nascosto e sostituito con un’altra immagine: un cielo di cenere e nulla su cui si arrampica una traballante scala di legno. Spariti i buoni e i cattivi, il bene e il male, resta il desiderio di salire più alto, senza alcuna certezza di poter andare oltre.

Ed ecco sulla parete lunga di fronte, anch’esso nascosto, un altro antico quadro emblematico, la Battaglia di Lepanto, l’ultimo mitico trionfo bellico della Repubblica di Venezia, che segna anche l’inizio del suo declino. Nessuna guerra si conclude in vittoria, ci ricorda il dipinto con cui Kiefer ha coperto la scena. Un teatro di fantasmi: sotto, incollate con uno strato di pece al muro, una parata di divise militari senza età, sopra i bagliori svaporati e inquietanti di un miraggio che immortala sagoma del palazzo ducale, e più in alto ancora il vessillo di Venezia, un leone sfilacciato che sembra volar via come una sfinge.

Lo spettacolo prosegue in altri sei pannelli. Panorami di un mare limaccioso in tempesta dove galleggiano delle navi a evocare il prestigio della flotta della Repubblica marinara: un’immagine aggiornata con i modellini di sommergibili, che sulla parete opposta si specchiano nel controcanto di una fila di carrelli ripieni di detriti. Presagi di mutazioni fuori controllo che culminano in una sorta di post-apocalisse finale. Un oceano di nuvole ed onde giallastre che ha inghiottito ogni architettura, ogni relitto d’umanità in armi, dal quale spuntano, a grumi traboccanti di nero, contorni di isole e rocce. Una riproposizione della deriva dei continenti che riavvolge verso il punto di partenza il nastro della Storia della Terra e dell’Uomo e chissà se e quale altra ne sta annunciando. Ci siamo più vicini di quanto pensiamo, ci avverte Kiefer, nel congedarci. Mentre fuori imperversa la voglia di dimenticare e far festa. E in Ucraina continua il massacro iniziato due mesi fa. Nessun alibi per gli artisti e il cartellone della Biennale che lo hanno ignorato. Perché lo spettacolo della guerra è in scena ovunque, solo un poco più in là. Dalla Siria al Kuwait, dal corno d’Africa al Mali. Sarebbe già bastato battezzarlo per quello che è sempre: uno spartito di pura, indecente macelleria.

Ce lo ricorda Anish Kapoor, con un’istallazione che è il cuore della mostra che il museo dell’Accademia gli ha dedicato.

Una grande sala tagliata da una quinta di sostegno. Sulla sinistra, il fusto e la bocca di un cannone scarico, che ricorda quel cimelio di modernariato bellico che Pino Pascali aveva portato in giro per gallerie e musei come monito. Simbolico. L’arma che Kapoor ha piazzato qui, invece, spara. E come. Proiettili a cilindro accumulati sul pavimento impiastricciato di rosso e brandelli grassi e cremosi di corpi, organi spiaccicati. E schizzi di sangue che macchiano le pareti con scie che si prolungano oltre la porta. Non c’è scampo se non la fuga.

Un trucco splatter di cera fusa, d’accordo. Ma è sempre così che l’arte insegue l’invisibile, raggiunge quello che non vogliamo vedere. E i colpi che ci hanno raggiunto dentro lasciano comunque cicatrici d’incubo su cui bisogna interrogarsi e trovare la cura. Anche ai tavoli del bar o del ristorante dove visitatori e turisti ci ritroveremo all’uscita.

1. Continua

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