Pierpaolo Loffreda
Viaggio nel cuore di una realtà-simbolo/2

Sovranisti d’Etiopia

Da Menelik II a Ahmed Abiy, passando per Haile Selassie, Menghistu, Melles e Daselegn: la storia dell'Etiopia (che nel nostro immaginario è segnata dalla nefasta occupazione fascista) ha delle incredibili analogie con l'Italia di Salvini e Di Maio

Qui in Etiopia tutte le fonti confermano che in questi mesi stanno avvenendo da un lato molte trasformazioni positive per la popolazione, grazie al clima di aperture diffusosi con la nascita, il 2 aprile 2018, del governo riformatore e liberaldemocratico guidato da Ahmed Abiy (nella foto sotto), e alla sconfitta della passata dittatura, e dall’altro forti tensioni inter-etniche, in buona parte probabilmente alimentate ad arte. Una delle innovazioni sostanziali del nuovo esecutivo, infatti è stata l’abolizione delle distinzioni fra le etnie (qui sono 83, anche se due di loro numericamente prevalenti sulle altre), che prima dovevano, per legge, essere segnalate perfino sui documenti di riconoscimento personali (come se sulla nostra carta di identità fosse scritto, in evidenza, “siciliano”, “toscano”, “trentino”…). Chi ha a lungo lucrato col vecchio sistema di potere ora agita (e finanzia) le rivalità etniche, pur di cercare di riottenere ciò che ha perduto, e la fascia più debole, più feroce, più ignorante o più corruttibile del popolino abbocca. «Nulla di nuovo sotto il sole», direte: è successo in Jugoslavia, in Ruanda, e anche da noi in Italia la “Padania” un tempo e l’ “Autonomia regionale” di Lombardia e Veneto oggi vanno nella stessa direzione (non a caso appena Milosevic aveva scatenato la Guerra in Bosnia – che avrebbe portato alla rovina quella regione – i capi reazionari nostrani Bossi e Fini – insieme al comunista Cossutta – erano andati ad omaggiare il satrapo di Belgrado e la sua politica criminale – ma questa è un’altra storia…).

Ad esempio qui, in questi ultimi giorni, si sono verificati scontri, con una sessantina di morti, nella provincial di Hawassa, una bellissima città turistica e importante sede universitaria. Responsabili, insieme a comuni banditi e razziatori, agitatori “sovranisti” (il motto è sempre  quello che risuona minaccioso anche in Italia: «Padroni a casa nostra!») della popolazione autoctona, i Sidamo,  più arretrati socialmente (sono soprattutto contadini, allevatori, pescatori), contro i Walayta, che vivono da decennia nella zona, e si occupano prevalentemente del commercio, delle costruzioni, dell’amministrazione pubblica e del sistema educativo. Un conflitto che è un classico della storia dell’umanità, ma che – la storia ci insegna – è possibile superare con la diffusione della cultura e dell’istruzione, con la contrattazione, la partecipazione di tutti alle decisioni politiche, lo sviluppo economico e la libertà (nello stesso modo in cui si sono appianati i conflitti etnici in Alto Adige/Sud Tirolo, nell’Irlanda del Nord, nei Paesi Baschi. È facile capire, infatti, che se tutti i Walayta se ne andassero “a casa loro” – come urlano i fanatici nazionalisti armati – la provincia di Hawassa, da ricca e produttiva, diventerebbe una landa desolata (come accadrebbe all’Italia se cacciasse davvero tutti gli “stranieri” e non facesse più arrivare immigrati). Già oggi, dopo la “pacificazione” ottenuta grazie al ricorso all’esercito, Hawassa (dove non si spara più, come anche nei dintorni) è ridotta ed essere una città spenta, vuota. La ricettività alberghiera, in questa stagione, era sempre al completo, mentre oggi si registra solo un 6% delle presenze negli hotel e nei resort. Ora anche i “sovranisti” locali si mangiano le mani… Tutti gli etiopi ragionevoli (la stragrande maggioranza della popolazione: più dell’80%) si augurano che le ripicche e gli odi tribali (con i saccheggi e la lunga scia di vendette che comportano) finiscano presto, e vengano dimenticati grazie allo sviluppo e alla democrazia. Il processo già avviato, che porterà alle prime elezioni libere dopo quelle del 2005 (di cui abbiamo parlato qui precedentemente), potrebbe essere dirimente, a questo riguardo.

Ma come si è arrivati a tutto ciò? Abbiamo ricordato che l’Etiopia è stata funestata, fino all’anno scorso, da 44 anni consecutivi di dittature: prima quella comunista di Menghistu (durata 17 anni), e poi quella (che abbiamo definito cleptocratica) di Melles e Daselegn (27 anni). Quest’ultimo regime si era specializzato soprattutto nella razzia dei beni e delle finanze pubbliche, nel malaffare e nel privilegio (indicative, da questo punto di vista, lo scandalo della rovina fallimentare – per sottrazione fraudolenta di risorse – della principale industria del paese, la METEC, di proprietà pubblica, e il furto – scoperto poche settimane fa – di tutto l’oro delle Riserve dello stato da parte dei capi del passato regime). Fra le due dittature, comunque, il primato dell’orrore spetta senza alcun dubbio alla prima.

Nell’era del DERG (così si chiamava la giunta militare al potere durante il comunismo), infatti, l’economia del paese è stata distrutta (a causa della statalizzazione forzata di ogni attività); le materie prime sono state depredate dalla potenza dominante (l’Urss) e dai suoi complici (Cuba, nella foto Fidel Castro con Menghistu) in cambio di armamenti per condurre guerre sanguinose, che hanno devastato parti del paese (il Tigray,  l’Eritrea); è stato compiuto un genocidio di massa dei contadini per carestia indotta (sul modello di quelli sovietici del 1918-1921 e 1930-1932, di quello cinese del 1957-1960 e di quello cambogiano del 1975-1979), e infine sono stati uccisi o fatti scomparire per sempre, durante il “Terrore Rosso”, proclamato dal regime nel 1977-1978, circa 320.000 oppositori, presunti tali o possibili dissenzienti (curiosamente proprio negli anni in cui i militari fascisti argentini stavano facendo la stessa cosa, sia pur su scala numericamente molto ridotta). Haile Mariam Menghistu aveva preso il potere in Etiopia il 12 settembre 1974, sulla base dell’esempio che gli era statom offerto, giusto un anno prima, dal suo collega Augusto Pinochet in Cile. Anche Menghistu era, infatti, a capo dell’esercito del Negus (così come Pinochet lo era stato, fino al golpe, di quello di Allende), e aveva scelto di tradire, il suo ruolo, il suo mentore e il suo popolo per ergersi a “Salvatore della Patria”. Immediatamente, il dittatore fece arrestare l’imperatore ottantaduenne Haile Selassie (un anno dopo, nell’agosto del 1975,  lo avrebbe ucciso con le sue stesse mani, strangolandolo nel letto cui era ormai costretto, e avrebbe quindi fatto seppellire il suo corpo, per spregio, sotto la latrina del palazzo – dove venne rinvenuto, decapitato, nel 1992), fece ammazzare con un colpo alla nuca tutti i ministri del governo legittimo, chiuse il Parlamento e revocò tutte le libertà, ad iniziare da quelle di parola, di associazione e di stampa. Menghistu provò quindi a cercare appoggi e legittimazione, e non trovando nulla di tutto ciò in Occidente – dove nessuno si fidava di lui e della sua giunta militare – il 20 dicembre 1974 proclamò ufficialmente che il suo golpe militare era stato una gloriosa Rivoluzione Proletaria, e il suo paese era diventato uno Stato Socialista, all’insegna dello slogan “Etiopia prima di tutto!” (vi ricorda forse qualcosa?…).

In realtà in quei tre mesi Menghistu (nella foto) aveva assoggettato il suo paese all’impero di Mosca, e i dirigenti sovietici, in combutta, in seguito, con i loro sottoposti cubani, avevano avuto la garanzia del controllo totale sulla loro nuova colonia, che il dittatore gestiva, come altri suoi pari nel mondo (da Ceausescu a Kim Il Sung, da Castro a Honecker), per conto terzi. Dal punto di vista umano, prima che politico, una delle peggiori malefatte del regime del DERG fu, nel 1985, il furto degli aiuti internazionali raccolti con la campagna We Are the World, lanciata da Bob Geldof. I fondi vennero sottratti per arricchire le tasche del despota e dei notabili del regime, mentre i contadini, afflitti dalla carestia (indotta dalla politica Agricola cambogiana voluta dal partito-stato), vennero lasciati crepare di fame. Menghistu non ha mai pagato per i suoi crimini: fuggito all’ultimo momento dal suo paese, portando con sé tutti i beni degli etiopi che era riuscito a trafugare, dal 1991 il “Lenin Africano” vive come un nababbo nel suo ranch dorato in Zimbabwe, ospite del suo degno compare, il feroce dittatore “rivoluzionario” Mugabe (costretto alle dimissioni, di recente, per questioni d’età e successione, ma ancora potentissimo).

Ma cosa era accaduto in Etiopia durante il lungo regno (1930-1974) dell’ultimo Negus Negesti (Re dei Re) Haile Selassie (nella foto), discendente diretto – secondo la tradizione – della Regina di Saba e di Re Salomone d’Israele, grandi sovrani dell’inizio dell’ XI sec. a.C., e di loro figlio Menelik I, fondatore dell’impero etiope (come vuole il mito fondativo del paese)? Di tutto e di più. Haile Selassie è stato, a mio parere, uno straordinario statista del ‘900: magnanimo, generoso, dotato di una forte visione del futuro, che, come altri uomini di governo che hanno avuto una funzione positiva per il proprio popolo (pensiamo ad esempio a Churchill, a De Gaulle, a Ghandi, a Mandela, a Roosevelt, a JF Kennedy), ha commesso anche errori (che al Negus sono stati fatali). Partiamo dai dati positivi. Haile Selassie ottenne l’impero dopo alcuni anni difficili. Menelik II (uno fra i più importanti sovrani della storia etiope) era morto per cause naturali nel 1913, e la sua eredità era difficile, perché allora – come oggi – le rivalità etniche e quelle fra i dignitari e i re delle diverse province intossicavano la vita del paese. Raf Tafari riusci’ a mantenerlo unito, con l’intento di procedure a passi rapidi verso la modernizzazione. L’Etiopia era l’unico paese libero e indipendente dell’Africa (quello della Liberia è un caso a parte), e il nuovo imperatore riuscì a farlo accogliere nella  Società delle Nazioni. Rese moderni anche l’esercito e l’amministrazione pubblica (sempre se ci confrontiamo con gli standard del sud del mondo, naturalmente). Debellò ovunque l’antico retaggio della schiavitù. Più tardi avrebbe concesso anche tutte le libertà essenziali. L’Etiopia ottenne, soprattutto dopo la guerra, ma anche prima, prestigio e rispetto in tutto il mondo, e il suo re era apprezzato da tutti in patria, almeno fino ai primi anni ’70, quando iniziarono (nel 1972) le proteste e le sommosse che avrebbero favorito poi l’organizzazione del  golpe. Gli errori invece, invece, furono commessi dalla ricostruzione degli anni ’50 in poi: non aver proceduto allo smantellamento del latifondo e dei privilegi nobiliari; non aver effettuato una riforma istituzionale, offrendo tutte le garanzie costituzionali, sul modello occidentale; aver revocato, nel 1962,  l’ampia autonomia data inizialmente all’Eritrea (legata, fino al 1962, ad un patto confederale con l’Etiopia); non aver ridotto le prerogative di potere del clero ortodosso; aver lasciato gli Oromo (che oggi son il 45% della popolazione) in una condizione subordinata (non potevano avere incarichi pubblici né diventare dipendenti dello stato o delle amministrazioni locali).

Chiariamo subito un fatto: contrariamente a ciò che pensano quasi tutti gli italiani, l’Etiopia non è MAI stata una colonia italiana. Ha subito, invece, una occupazione militare voluta dal regime fascista, per cinque anni esatti: dal 5 maggio 1936 al 5 maggio 1941. Il che è completamente diverso. Per capirci, facciamo un esempio: durante l’ultima guerra mondiale la Francia, il Belgio, l’Olanda, il Lussemburgo, la Danimarca, la Norvegia, la Polonia, la Jugoslavia, la Grecia sono stati occupati dalla Germania nazista per un periodo compreso fra i due e i cinque anni (come l’Etiopia dagli invasori italiani). Ma chi oserebbe dire che quei paesi sono state delle “colonie” tedesche? Fra l’altro nei cinque anni di occupazione il fascismo controllava solo un terzo, circa, del territorio dell’Impero etiope, comprese tutte le città, mentre il resto del paese, isolato e inaccessibile, era in mano alla guerriglia. Durante la conquista prima e l’occupazione poi, gli italiani sterminarono sistematicamente circa 500.000 etiopi. Molti di questi con i gas letali e le armi chimiche, proibite ovunque nel mondo, ma impiegate qui per la prima volta contro la popolazione civile. Solo nel 1996, per primo il governo Prodi I, ammise l’uso di quelle armi (impiego voluto espressamente da Mussolini ed eseguito da Badoglio perché il Regio Esercito stava subendo continue sconfitte da parte degli etiopi durante l’aggressione militare). Eseguita l’occupazione, gli italiani deportarono tutti gli etiopi dalle città in cui vivevano, e li costrinsero a campare in orrende bidonville in periferia, perché nelle città doveva valere il motto “Prima gli italiani!”. Così avvenne nelle fattorie, nelle aziende: ovunque. Gli ospedali, le scuole, le sale cinematografiche costruite erano riservate solo agli italiani, e agli etiopi era proibito l’accesso.

Le cose peggiorarono prima, nel 1937, con Rodolfo Graziani (nella foto, uno dei peggiori criminali di guerra del secolo scorso, passato indenne attraverso la giustizia italiana, a differenza di molti suoi colleghi tedeschi), e poi, nel 1938, con le “Leggi razziali”, che non riguardavano solo gli ebrei, ma anche tutti i “sudditi delle colonie”, che, in quanto neri di pelle, vennero considerati per legge “subumani”, e quindi da isolare e sacrificare, nel caso lo si ritenesse opportuno. Non a caso Haile Selassie, costretto all’esilio, il 30 giugno 1936, all’assemblea della Società delle Nazioni, in un discorso vibrante e profetico, aveva avvertito: «Quello che i fascisti hanno fatto a noi, presto lo faranno a tutte le altre nazioni». E così fu, purtroppo.

La guerra di Liberazione etiope fu brevissima. Dopo l’inizio della guerra scatenata da Mussolini contro la Gran Bretagna, gli inglesi attesero qualche mese e poi  entrarono in Etiopia, nel febbraio 1941, insieme ai partigiani etiopi e al loro imperatore (sempre presente in battaglia, come vuole la millenaria tradizione etiope). Appena superato il confine del Sudan e baciato il suolo del suo paese, il Negus pronunciò un discorso fondamentale, che da noi dovrebbe essere studiato nelle scuole (invece è stato tradotto in italiano e pubblicato per la prima volta nel 2012!). Haile Selassie disse a tutti i suoi connazionali che gli italiani, nonostante avessero compiuto o approvato azioni brutali contro gli etiopi, una volta sconfitti NON dovevano essere toccati con un dito. NESSUN etiope avrebbe potuto, impunemente, vendicarsi degli italiani, né procedere a faide, rappresaglie e razzie nei loro confronti. Anzi, precisò: gli italiani che, dopo la Liberazione, avrebbero desiderato rimanere in Etiopia, non più come padroni, ma da lavoratori e cittadini, avrebbero dovuto essere accolti dagli etiopi come fratelli. E avvenne proprio così: NON ci furono vendette né massacri (nonostante gli orrori che gli italiani avevano compiuto). E così molti italiani rimasero a vivere e lavorare nel paese. Uno spirito di nonviolenza e riconciliazione che ha anticipato di 50 anni quello, altrettanto meritorio, di Nelson Mandela. In soli 3 mesi l’Etiopia fu libera, e tornò ad essere indipendente. Gli inglesi rispettarono i patti, e non avanzarono pretese.

Prima di Haile Selassie (nella foto accanto) s’erano alternati sul trono del Leone di Giuda tre altri imperatori innovatori e modernizzatori. Andando a ritroso nel tempo, sono stati Menelik II, Yohannes, e Tewodros. Menelik II (nella foto sotto), il cui governo durò dal 1889 al 1913, riuscì a riunificare l’impero e ad estenderne i confini fino quasi alle dimensioni attuali, avviò riforme fondamentali e mise fine alle mire colonialiste italiane con la battaglia di Adua, il 1 marzo 1896, in cui, in poche ore, rimasero sul terreno più di 6.000 soldati aggressori (una metà abbondante del corpo di spedizione inviato da Crispi per sterminare i “selvaggi africani”). Quell’evento e quella data vengono celebrati anche oggi dagli etiopi, con festeggiamenti e dipinti rievocativi, e rimangono impressi, per tutti nel mondo, come «la più grande sconfitta di un esercito coloniale in Africa». Anche Yohannes, Negus regnante prima di Menelik, era stato un uomo d’armi, oltre che un riformatore. Si era battuto contro gli egiziani, gli inglesi e i dervisci sudanesi, ed era morto in battaglia. Il suo predecessore, Tewodros, era stato addirittura, da giovane, un bandito romantico (oltre che figlio di un importante Ras). Sua era stata la prima impresa di riunificazione del paese, contro le pretese e gli intrighi dei feudatari. Aveva reso dinamici i commerci, costruita una buona rete stradale, avviata una riforma agraria che scontentò i latifondisti parassitari. Entrò in conflitto con i britannici, che avevano intenzioni egemoniche sull’impero, e, nel 1868, in una battaglia decisiva contro di loro, rifiutò di arrendersi e si uccise, dopo aver lasciato ai suoi un impegnativo testamento politico.

Prima di questo denso ‘800 (che ricorda un po’ le coeve vicende risorgimentali europee), l’Etiopia aveva avuto un suo Rinascimento, con Gondar come capitale (dal 1636 al 1784). Molti spazi dei palazzo di Gondar, restaurati e protetti dall’Unesco, sono anche oggi visitabili. Non integralmente, perché alcuni vennero saccheggiati dalle scorribande dei dervisci, ed altri danneggiati dai bombardamenti inglesi nel 1941. Gli italiani, infatti, avevano altezzosamente posto il quartier generale proprio in questi saloni magnici, e poi scatenato la Guerra contro la Gran Bretagna. Il risultato era abbastanza prevedibile, no?… Queste costruzioni architettoniche sono davvero sorprendenti: uno stile originale, con influenze moresche e indiane. Nel secolo precedente (il ‘500) si erano avute in Etiopia, come in Europa, almeno 30 anni di guerre religiose, che qui si erano disputate fra invasori musulmani e cristiani ortodossi originari. Prima ancora c’era stato il grande Medioevo etiope, che ci ha lasciato numerose testimonianze scritte, un ampio apparato iconografico, i meravigliosi monasteri rupestri del Tigray e quelli sulle isole del Lago Tana, e poi il complesso di Lalibela, unico al mondo: 10 chiese ipogee e cio’ che resta del palazzo imperiale, il tutto costruito nel XII secolo d.C.

Le chiese, tutte comunicanti fra loro, anche grazie a passaggi segreti, sono tuttora molto frequentate dai fedeli etiopi. Prima ancora l’Etiopia, come tutta l’Europa, aveva attraversato i suoi “secoli bui”, succeduti alla fine della fase axumita dell’impero, che era durata moltissimo (uffialmente dal VI sec. a.C. al X d.C.) e aveva visto una grande estenzione territoriale, fino agli attuali stati di Eritrea, Gibuti, Somaliland, Somalia, Yemen e a parte del Sudan, e una potenza pari a quella di tutti gli altri imperi del mondo a quel tempo. Ma è necessario segnalare che nella capitale, Axum, gli scavi hanno finora portato alla luce solo il 5% del patrimonio architettonico e archeologico contenuto nel sottosuolo. Da altre tracce, si presume che una entità collettiva organizzata, in Etiopia (di tipo axumita o pre-axumita) sia esistita fin dal XVI sec. a.C., portando a 3.500 circa gli anni di vita del paese. Una delle più antiche civiltà strutturate al mondo, quindi, almeno quanto quella ebraica, alla quale l’etiope è sempre stata legata, anche attraverso la religione cristiana autoctona, che vive ancora in sintonia con le origini ebraiche. La lingua: l’amarico è una lingua semitica, affine all’ebraico antico e all’arabo delle regioni meridionali (altra cultura con la quale i rapporti sono stati sempre stretti, fin dale radici miste: africane, arabe e sabee, è quella dello Yemen). La letteratura etiope è attestata fin dal VI sec. d.C., anche se ha avuto poi un impulso più significativo dal XIV sec.), e l’Etiopia è l’unico paese africano, oltre all’Egitto, ad aver avuto una lingua scritta. Difficilissima da imparare, però, perché il suo alfabeto è composto da 265 segni, alcuni fonetici (come i nostri) e altri simbolici (come quelli degli antichi egizi), senza nessuna corrispondenza fra ciò che viene scritto e la sua pronuncia.

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Fine della seconda parte. Clicca qui per leggere la prima parte.

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