Giuliano Capecelatro
Viaggio a Berna/1

La città di Einstein

Sulle tracce di Albert Einstein, tra strade, musei, formule matematiche e memoria. In una città che sembra quasi un tempio a cielo aperto dedicato al Genio

La strada che ne consegna il nome altisonante ad un’anodina e sonnacchiosa quotidianità è un po’ fuori mano. Due file di abitazioni di media e medio-piccola borghesia: due piani la norma; il silenzio come codice comportamentale non scritto ma interiorizzato. In una piccola aiuola, davanti all’ingresso del numero 2, sede del Css (Consiglio svizzero delle scienze), omologo dell’italiano Cnr, un pannello riporta una frase che è una succinta indicazione metodologica: «La sorgente di tutte le conquiste tecniche è la divina curiosità del ricercatore che manipola e si lambicca il cervello e, non da meno, la fantasia costruttiva dell’inventore tecnico». Firmato: Albert Einstein. L’Einsteinstrasse lo ricorda come “fondatore della teoria della relatività”.

In quattro, cinque minuti, un autobus rosso vivo raggiunge la Zytglogge, torre campanaria che su una targa illustra in rapida sintesi come l’Herzog Berchtold, il duca Bertoldo, nel 1191 pose la prima pietra della città. Da qui la Kramgasse scende rapida verso le cristalline sinuosità dell’Aare, fiume che accoglie in un morbido abbraccio e quasi isola la città più antica.

Al di sopra di portici massicci, al numero 49, una figura si staglia su un balconcino, gigantografia appoggiata a un supporto: un omino baffuto avvolto in un pesante cappottone, il capo coperto da un cappello; lo scienziato illustre in versione uomo della strada. Piccolo espediente commerciale per attirare l’attenzione sulla casa in cui Albert Einstein visse dal 1903 al 1905. E dove pose le fondamenta della teoria che avrebbe sconvolto la meccanica classica di Isaac Newton.

Il nome dello scienziato a Berna, deliziosa cittadina a misura di esseri umani, è moneta corrente. Rimbalza da un angolo all’altro. Scandisce i percorsi e le tappe che gli erano familiari. In cui, magari nelle vesti dimesse di impiegato dell’ufficio della proprietà intellettuale, ha lasciato traccia.

Il lungo e articolato tram, sempre rosso squillante, vera e propria metropolitana di superficie puntuale ed efficiente, ferma alla Bern banhof, la stazione. Proseguirà fino ai piedi del Gurten, incantevole parco in collina, con ampia vista sulle cime bianche di neve delle Alpi. Einstein, che non era per nulla un sedentario, vi avrà trascorso alcune ore del suo tempo libero, lasciando che la mente spaziasse come i panorami che gli si aprivano davanti.

Dalla stazione, poche centinaia di metri a destra, di fronte alla massicciata della ferrovia, si apre la Speichergasse; all’incrocio con la Genfergasse, il palazzo in cui lavorava l’impiegato Albert Einstein espone una targa bilingue, tedesco e inglese. «Mentre esaminava i brevetti, tra il 1902 e il 1907, Einstein pensò: “Una persona in caduta libera non dovrebbe avvertire il proprio peso”. Un’idea base della teoria della relatività». Quella denominata ristretta divenne di dominio pubblico nel 1905.

Nuda e cruda, la frase potrebbe apparire una formula ermetica. Ma è quanto regolarmente sperimentano gli astronauti una volta usciti dall’atmosfera terrestre, tra martelli, scodelle, penne e vari strumenti, per non dire dei loro stessi corpi, che volteggiano elegantemente e non ne vogliono sapere di posarsi al suolo. In quegli anni scevri di astronauti e avventure extraterrestri, il primo passo per demolire la fisica classica e dare l’addio alle mele di Newton.

Berna, città che ha l’orso per animale totemico e insegna municipale, di citazione in citazione, di edificio importante in edificio importante, appare un tempio a cielo aperto dedicato al Genio. Nella fattispecie, cioè nella concretezza del suo ristretto perimetro, impersonato da lui, Einstein; ma tra le righe, più in generale, a quel mito cardine dell’uomo autodefinitosi civilizzato che è il Genio.

Un tempo, per antonomasia, il ruolo spettava a Leonardo da Vinci. Ma, insegna padre Dante: «Credette Cimabue nella pintura/ tener lo campo, e ora ha Giotto il grido/ sì che la fama di colui è scura» (Purgatorio, canto XI, vv. 94-96). È l’implacabile legge di quella caotica progressione, se progressione è davvero, etichettata come Storia. Che, come Crono, sforna miti, se li mangia e ne mette al mondo di nuovi. Leonardo resta Leonardo, per carità!, ma l’era scientifico-tecnologica ha il suo mentore appropriato. Che, prima o poi, sarà scalzato da chi interpreterà con maggior adesione ritmi e prospettive dell’era virtuale che va acconciandosi tra le mura domestiche degli abitanti del pianeta.

Come ogni mito, anche quello del genio è una favola (absit iniuria verbis: nel senso etimologico, solo etimologico, della parola), dunque va interpretata; legioni di scienziati della psiche non sono forse andati a nozze con le multiformi configurazioni di Cappuccetto rosso e Cenerentola? Al di là della pulsione ad innalzare piedistalli ad ogni stormir di fronda (umana), c’è da capire che cosa si voglia raccontare e di cosa si voglia convincere l’umanità raccontando questa favola.

Einstein, che non mancava di una certa dose di vanità, non disdegnò di fornire un fondamentale contributo, Nei primi anni Cinquanta, più popolare ormai di Gesù, per dirla alla Beatles (parole di John Lennon), consentì che registrassero le sue onde cerebrali. Un tentativo per capire, nell’intricata rete di circonvoluzioni, neuroni, lobi frontali e parietali, cosa producesse tanta genialità. Una strada che non poteva non percorrere una scienza che ha come parametro irrinunciabile la misurazione, che tutto traduce in numeri che dovrebbero fornire una garanzia di concretezza, di afferrabilità.

Né fini qui. Lo scienziato morì nell’aprile 1955 a Princeton, dove si era trasferito già negli anni Trenta per sfuggire al nazismo, che nella sua teoria vedeva l’ennesima congiura ebraica. Aveva accettato di lasciare in eredità il cervello, perché si potesse scandagliare il mistero, o presunto tale, di quella iperbolica cerebralità.

Ne seguì una sorta di feuilleton, o fiction che dir si voglia, che potrebbe suscitare l’invidia degli sceneggiatori di Grey’s anatomy. L’organo venne pesato (per la cronaca, 1 chilo e 200 grammi), fotografato, conservato in un barattolo di formaldeide. Quindi dal Princeton hospital si ritrovò sbalzato a Philadelfia. Cominciò a essere sballottato di qua e di là, esaminato, scandagliato, in parte letteralmente sminuzzato a fettine, mentre una porzione (il cervelleto, una porzione di corteccia e qualche vaso aortico) finiva miseramente in un prosaico barattolo di vetro, di quelli normalmente adoperati per conservare alimenti in frigorifero. In tante peregrinazioni, venne persino dimenticato, come un ombrello qualsiasi, sia pure a casa di una nipote dello scienziato.

La ricerca del sacro Graal dell’umana genialità aveva partorito un topolino: l’unica particolarità rilevata poteva consistere in una maggior concentrazione di cellule gliali (che con i neuroni formano il sistema nervoso centrale e periferico), piuttosto poco, per non dire nulla.

Ma il mito era stabilito e consolidato. In termini affatto materialistici. Il cervello, o quel poco che ne era rimasto, issato su un altare, sia pure in un volgare barattolo anziché una più nobile pisside. E fu immediatamente vivisezionato da Roland Barthes, semiologo acuto e maître à penser di rango. Che, nel 1956, gli dedicò un paio di paginette di Mythologies (Miti d’oggi). Deprecava, il maître, l’approccio meramente funzionalistico dell’operazione, che però, sosteneva, paradossalmente finiva per rivestire di un’aura magica la figura di Einstein, iscrivendolo d’ufficio tra i membri eletti di un immarcescibile pensiero gnostico, che dal principio dell’unità della natura vola verso «l’idea che il sapere totale posa svelarsi d’un sol colpo, come una serratura che ceda bruscamente dopo mille infruttuosi tentativi» (Miti d’oggi, Einaudi, 1974, p.88).

Dall’aldilà, non è da escludere che lo scienziato abbia mostrato tanto di lingua ai ricercatori che si affannavano a capire come mai fosse stato così intelligente. E forse, con tutto il rispetto, anche al maître, che pure aveva cercato solo di ristabilire le giuste proporzioni. È una delle sue foto più diffuse ancora oggi e che, in qualche misura, ha posto le fondamenta del mito. Genio, certo, ma anche burlone dalla capigliatura anarchica, che se la intendeva con Charlie Chaplin e proprio non amava i paramenti liturgici di sacerdote del sapere. Che, alla prima occasione, si abbandonava alla sua grande passione, le escursioni in barca a vela.

Il Rosengarten, giardino delle rose, è un’altra collina di Berna che si affaccia sull’Aare. Un’esposizione inebriante di oltre duecento varietà del fiore, ciascuna dedicata a un nome celebre. Non appena il sole allontana nuvole e brume, i bernesi lo affollano. Su una panchina un po’ discosta, al margine di una stradina che vertiginosamente punta verso la gabbia degli orsi – i due esemplari che sono esibiti come simbolo cittadino –, siede compostamente Albert Einstein. Osserva assorto l’andirivieni, si offre imperturbabile agli scatti di turisti e autoctoni; il prezzo della celebrità. È il suo sosia bronzeo. Per non essere scortese con i passanti, dà le spalle al fiume. Con qualche forzatura si potrebbe interpretarlo come il saluto alla città in cui ha scritto le prime pagine del suo libro. Pronto al volo verso il Nobel, la celebrità; infine, il Mito.

  1. Continua
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