Danilo Maestosi
Una mostra all'aperto nel cuore di Roma

Ritorno a via Margutta

Pericle Fazzini, Arnaldo Pomodoro, Pietro Consagra, Arturo Martini, Giacomo Manzù... Gabriele Simongini ha allestito un percorso tra memoria e arte per cercare di riportare Via Margutta ai fasti del passato

Maledetti, benedetti ricordi. Distorcono la vista, offuscano il presente come il velo di una cataratta. Guardar troppo all’indietro ci impone una postura sbagliata. Non si vive di ricordi, ma senza ricordi si muore anzitempo. Se si tiene a bada la nostalgia, la memoria è invece una bussola preziosa. Anche per chi governa una città. Specie una città come Roma che rischia sempre di annegare nel suo passato, ma senza è una capitale dimezzata. Difficile trovar la misura giusta.

Pensieri messi in circolo da una mostra ideata per un palcoscenico speciale come via Margutta che terrà banco per un mese. Un gioiello del centro storico, incastonato tra le pendici del Pincio e via del Corso, che non è più all’altezza del suo mito. Un mito recente, come quello di via Veneto e della dolce vita, costruito fra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del dopoguerra, quando la strada era un ritrovo privilegiato di artisti, che qui avevano aperto studi e bottega, e a piazza del Popolo tenevano salotto. Quando il cinema, allora col vento in poppa, ne aveva fatto un suo tempio: ci viveva con la sua anima di sognatore, Federico Fellini; Gregory Peck e Audrey Hepburn ci girarono le scene madri di Vacanze romane, film che a Hollywood è ancora leggenda.

via-margutta-manzuCome altrove, la bella favola si è dissolta. Roma è cambiata, si è incarognita, i protagonisti di quella stagione sono morti, gli artisti hanno lasciato i loro studi, troppo cari gli affitti per incoraggiare subentri. Via Margutta ha mutato pelle, precipitando in classifica fino a offrirsi come rituale ribalta a pittori della domenica. Chiuse o scomparse le gallerie più importanti, altre vetrine, altri negozi griffati ma qualunque. Resta qualche antiquario. E fin troppa nostalgia. Che però è ancora merce da guida turistica, una buona cassa di risonanza commerciale, un brand – si direbbe oggi – da ravvivare. Da qui è partita l’idea di Giovanni Morabito, un imprenditore calabrese che qui gestisce da più di venti anni una piccola galleria di punta, specializzata nel lancio di giovani pittori emergenti: sfruttare il lungo rettifilo come palcoscenico di una mostra all’aperto, capace di restituire alla strada un po’ dello smalto perduto e di evocare gli alti livelli di qualità degli artisti italiani che per mezzo secolo hanno abitato via Margutta o qui comunque si sono incontrati. Progetto che, affidato alla cura di un critico d’arte di collaudata esperienza come Gabriele Simongini, ha preso corpo grazie al contributo di un mecenate, da anni protagonista della vita culturale romana, il banchiere Emmanuele Emanuele, e di una fondazione da lui diretta. A favorire questo coinvolgimento proprio il ricordo, vissuto da Emanuele, che allora si era appena trasferito nella capitale, dell’incredibile vivacità artistica della Roma anni ‘60 e del villaggio di talentuosi autori che abitava via Margutta e i suoi dintorni. Il ricordo come stimolo e spinta virtuosa.

via-margutta-messina-raphaelUn tentativo di risalire controcorrente il corso del tempo che è riuscito solo a metà perché la memoria non opera su tutti la stessa magia: nessuna collaborazione dal Campidoglio con la nuova giunta senza idee e al collasso, scarsa la collaborazione della circoscrizione, indifferenti o a volte persino restii i commercianti e gli altri galleristi che riproducono anche in questa strada così speciale, ancora straordinariamente bella nonostante tutto, pigrizie, invidie e resistenze ottuse di un condominio qualunque. E perché riaprire le case del passato si trascina sempre appresso una muffa di malinconia e di impotenza, uno spleen che non sprigiona vitalità, al massimo una rabbia rassegnata. Ben venga dare una scossa e l’esempio, ma non c’è da illudersi di lasciare il segno della continuità con un’iniziativa destinata a durar solo un mese.

Ma la mostra è comunque uno spettacolo da un perdere. Accentuato dalla pioggerellina da addio all’estate che ha accompagnato l’inaugurazione. Quasi un gioco erotico la vista di quelle gocce che scivolano lente come carezze sui corpi nudi delle statue, moltiplicando i riflessi del bronzo con cui sono state in gran parte forgiate. Quasi un tocco calcolato di regia i rivoli d’acqua che si accumulano nella casettina che fascia la buffa sagoma di acciaio blu ritagliata pochi anni fa, prima che la morte lo togliesse di scena, da Renato Mambor, maestro del pop all’italiana, e intitolata Contenitore per la pioggia.

Quattordici grandi sculture disseminate con sapienza scenografica lungo il percorso, dal nudo di donna in cammino di Pericle Fazzini, uno dei grandi maestri della via Margutta che fu, incastonato tra ciuffi d’edera all’angolo più vicino a piazza di Spagna, al corpaccione stilizzato di atleta bulimico forgiato da Giuliano Vangi, star ancora in sella della scultura italiana, che fa da sentinella sull’angolo opposto verso piazza del Popolo. Tutti pezzi da antologia, e nomi di assoluta grandezza: da Arturo Martini a Giacomo Manzù, da Antonietta Raphael a Francesco Messina. Anche se per mancanza di fondi si è stati costretti ad attingere ad un unico serbatoio, un mercante collezionista disposto a limitar le pretese e a rischiare i prestiti in un’esposizione all’aperto, difesa da un sevizio di guardiania notturna ridotto all’osso. E anche se il numero di opere astratte è molto, troppo ridotto: una lastra di Consagra, altro testimone-protagonista eccellente della via Margutta del dopoguerra; un tondo di Arnaldo Pomodoro istallato accanto alla galleria al numero 102, che espone una maquette in bronzo del monumento che troneggia sul piazzale del Palaeur.

via-margutta-pomodoroMa qui ha giocato un idea sulla memoria da tramandare che il curatore Gabriele Simongini difende da tempo contro la superficialità frivola e senza spessore storico, contro le furbe scorciatoie concettuali, contro l’abuso di stereotipi da cimitero di rottami di tanti autori contemporanei, che praticano la scultura, senza averne metabolizzato i fondamentali. Guai annaspare nei ricordi. Ma ancora peggio rinunciarci per calcolo.

Alla mostra però il rimprovero forte di una botta d’oblio. Aver dimenticato di portare in passerella un’artista di rango ultraottentenne come Sinisca, che oltretutto è davvero l’ultimo superstite del popolo dissolto di via Margutta. Sinisca abita e ha studio al numero 33, lo stesso palazzo dove Hollywood ambientò l’impossibile fuga d’amore di Vacanze romane. Visitare la sua casa, trasformata in un bosco di intricate scultura d’acciaio, è un esperienza unica, come aggirarsi tra i versi dell’Orlando furioso.

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Nelle foto, dall’altro in basso, le opere di Giuliano Vangi, Giacomo Manzù, Antonietta Raphael a Francesco Messina e infine di Arnaldo Pomodoro esposte in Via Margutta.

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