Arturo Belluardo
Il senso di una crisi

Eichmann o Dostoevskij?

Il soldato che si giustifica come Eichmann o lo scrittore (assurdamente) censurato come Dostoevskij? Il "dibattito" su Putin e la sua criminale guerra in Ucraina passa dai luoghi comuni alle banalità. Come sempre, a trionfare è l'ignoranza

Non riesco a parlare dei massimi sistemi. A scriverne meno che mai. Non so niente di geopolitica, di politiche energetiche, di guerre, di confini. Non so niente di sovranismo e di populismo, di diritto all’autodeterminazione dei popoli e delle nazioni. Non perché tema (e lo temo) di scivolare nel pressapochismo conformista e qualunquista, ma perché, in maniera più piccina, riesco solo a parlare di argomenti riconducibili a me, alla mia dimensione di uomo, al mio essere un grumo di cultura stratificato negli anni. A lavorare di testa (con le mani non sono capace, con i piedi meno che mai) con i miei strumenti e con i miei filtri culturali, con le poche cose che so.

Delle poche cose che so, pochissime me le ha insegnate mio padre, e di queste la più importante è che per potersi definire uomini bisogna leggere. E bisogna leggere i libri giusti, quelli che ci tracciano i contorni della vita, quelli che ci ispessiscono l’anima.

Fu per questo motivo che, nella torrida estate che separò i miei esami di licenza media dall’inizio del liceo classico (luogo magico dove mi si sarebbero schiusi mondi meravigliosi), mio padre mi costrinse a leggere quattro libri: il Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels (“è stato scritto perché lo potessero leggere gli operai e quindi tu, a quattordici anni sei in grado di leggerlo”), Se questo è un uomo di Primo Levi, Il giovane Holden di Salinger (e dopo che l’ebbi letto, mi stupii di quanto avanti fosse mio padre) e Delitto e Castigo di Dostoevskij. Quando vidi le dimensioni di quel volume, provai a lamentarmene, ma mio padre era un uomo molto autoritario e guai a contraddirlo. Finì che passai le notti a leggere la storia di Raskolnikov senza potermi fermare: non andavo neanche più a mare, restavo a letto a sudare e a leggere.

L’uomo che sono diventato è partito da lì, da quelle lenzuola collose di scirocco, dalle parole di Marx, di Levi, di Salinger e Dostoevskij. Ed è per questo che quando ho letto della soppressione di un corso (gratuito, peraltro) sullo scrittore russo che Paolo Nori avrebbe dovuto tenere all’Università Bicocca di Milano “per evitare polemiche in un forte momento di tensione”, sono rimasto sgomento.

Nori stesso ne ha dato l’annuncio su Instagram, quasi in lacrime. Paolo Nori, per come lo conosco dai suoi libri e da un’amica comune, è persona schiva, riservata, ai limiti dello scontroso. Immagino la fatica e il dolore che gli siano costati denunciare quanto gli è accaduto, la sua umiliazione. Umiliazione, non per la censura in sé, ma per l’essere stato costretto a chiarire la sua posizione sull’Ucraina e a difendere Dostoevskij sui social.

Che poi la Bicocca abbia fatto marcia indietro conta poco, conta il pressapochismo conformista che contraddistingue il panorama “culturale” italiano nel suo collocarsi rispetto al conflitto in corso tra Ucraina e Russia: siamo passati dal considerare le ucraine buone a fare solo le “cameriere e le badanti, o al massimo le amanti” (cit. Annunziata e Di Bella) o a esaltarne “il buco del culo rosa” (da un empio vocale che è circolato in rete qualche giorno fa), a non far cantare Anna Netrebko perché non denuncia Putin, a sopprimere i seminari sull’autore dei Karamazov. Il tutto attraverso un marmellatume stucchevole, dove la solidarietà silenziosa si trasforma in rincorsa esibizionista al mostrare agli altri quanto si è più buoni di loro nel soccorso ai profughi.

Quasi a rincorrere un senso di colpa “occidentale” nell’aver fatto affari con Putin fino a ora, nel continuare ad accendere le nostre caldaie con il gas russo. Per aver osannato fino a ieri un mostriciattolo insano, facendosi regalare lettoni e soldi, barili di petrolio e felpe griffate. O per averne tollerato l’esistenza, la sua come quella di altri dittatori che, al momento, non ci vengono a bussare alla porta con le bombe.

Personalmente non credo che Putin sia un pazzo, come non era un pazzo Adolph Hitler, e non credo che sia diverso da come è sempre stato, un dittatore assoluto che sa tenere in mano il potere come pochi e che è seguito da molti, da moltissimi.

Quando Nicola Fano qualche giorno fa ci ha invitato a riflettere sul soldato russo che ha premuto il bottone che ha sganciato le bombe sui civili ucraini (clicca qui per leggere il commento), il pensiero mi è immediatamente andato al processo Eichmann a Gerusalemme, ad Hannah Arendt. Alla macchina burocratica del male, al male che perpetua sé stesso nella sua autogiustificazione. Alla tattica della diffusione della responsabilità di Zimbardo. Alle parole di Jonathan Littel ne Le benevole, a proposito delle singole responsabilità nello sterminio nazista dei malati di mente: “Interrogati dopo la guerra, ognuno di loro dice: Colpevole io? L’infermiera non ha ucciso nessuno, si è limitata a spogliare e tranquillizzare gli ammalati, gesti comuni alla sua professione. Nemmeno il medico ha ucciso, ha semplicemente confermato una diagnosi secondo criteri stabiliti da altre istanze. L’operaio che apre il rubinetto del gas, quindi colui che è più vicino all’omicidio nel tempo e nello spazio, svolge una funzione tecnica sotto il controllo dei suoi superiori e dei medici. Gli operai che sgomberano la stanza compiono un necessario di bonifica, per di più assai ripugnante […] Chi è dunque il colpevole? Tutti o nessuno? Perché l’addetto al gas sarebbe più colpevole dell’operaio addetto alle caldaie, al giardino, ai veicoli?”.

Cosa può fermare questa macchina atroce e imbelle? Cosa può gettare sabbia nei suoi ingranaggi, incepparne l’efficienza monolitica? Bombe su bombe?

O non sarebbe più efficace un bimbo che gridi che il Re è nudo? Uno sberleffo gigante, come quelli di Arlecchino?

O come quello di Adriano Panatta e Paolo Bertolucci, che indossarono una maglietta rossa nella finale di Coppa Davis all’Estadio Nacional di Santiago del Cile, quando il Cile era soffocato da una sanguinaria dittatura fascista, quando quello stesso stadio era stato teatro dei massacri degli oppositori del regime. L’idea fu di Panatta

“Paolo, oggi ci mettiamo la maglietta bella, quella rossa”.
“Ma tu sei matto, questi ci ammazzano”
“Ma piantala, che vuoi che succeda”.
“Vuoi sfrugugliare?”
“Sì, voglio sfrugugliare”

Pura Commedia dell’Arte.

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