Anna Camaiti Hostert
Cartolina dall'America

Tempo d’impegno

Vent'anni dalle Torri gemelle: due decenni di inutile e tragica guerra in Afghanistan, poi la radicalizzazione della destra americana, il ciclone distruttivo di Trump che ha travolto le istituzioni Usa. Serve una nuova strategia per risollevare il Paese. L'impegno, per esempio...

Seppure riluttante a scrivere In occasione della tragica ricorrenza dei venti anni trascorsi dall’11 settembre, proprio perché tutti si affrettano a farlo, credo tuttavia che per rispetto ai temi americani di cui mi sono occupata in questi anni e mi occupo da sempre per Succedeoggi compiere alcune riflessioni sia quasi un dovere. Ma è davvero con animo triste che mi appresto a scrivere di una ferita mai rimarginata. Forse è anche vero che con l’Afghanistan si chiude un’era, forse l’America rimarrà ancora un Leviatano incatenato faro di luce democratica, forse il suo potere nel mondo si andrà progressivamente indebolendo. Ma non è questo che mi interessa. Sono la gente, i valori, le dinamiche le budella che vedo squinternati come non avevo mai visto e che non accennano a ricomporsi. E questo fa male.

Quindi più che agli equilibri internazionali che vedo precari, pericolosamente instabili e incerti mi riferirò a quelli interni. Come ho scritto precedentemente, quando ho parlato del ritiro dall’Afghanistan, ritengo la scelta di Biden un passaggio obbligato, seppure con enormi deficienze, ma coraggioso perché, come dice Fukuyama, ha assunto su di sé i rischi di una guerra che è stata sbagliata sin dall’inizio, che non si doveva fare e che ben due presidenti prima di lui non hanno avuto il coraggio di terminare, pur dicendo che l’avrebbero voluto fare. Si sapeva che il ritiro sarebbe stato una tragedia. E come Fukuyama ritengo che tale scelta derivi da problemi interni al paese che ha subìto una trasformazione epocale da quel fatidico 11 settembre. In particolare lo studioso definisce la polarizzazione del paese un “cancro che si sta metastasizzando” ovunque. Nello specifico è la metastasi che ha subito il partito repubblicano a preoccupare, quello stesso di Lincoln a cui peraltro dice di ispirarsi Biden. Infatti è divenuto il partito che crede che il governo e il settore pubblico siano il male assoluto e che ritiene il bene comune un elemento secondario. Da questo derivano le teorie del complotto che vedono oggi nelle mascherine un impedimento alla libertà individuale e nei vaccini, incoraggiati dai democratici, strumenti di controllo dei cittadini. Secondo questo modo di pensare c’è una cospirazione globale contro l’America che è sotto attacco da parte di nemici esterni che si sono incistati all’interno e vanno estirpati. E di questo Biden deve tenere conto.

Non credo viceversa, contrariamente a Fukuyama, che una certa radicalizzazione della sinistra democratica si possa paragonare all’imbizzarrimento del partito repubblicano. Credo infatti che le battaglie su certi temi come l’abolizione dell’aborto in Texas o l’appoggio a movimenti come #MeToo o Black Lives Matter siano in generale elementi di democrazia sacrosanti che non hanno niente a che vedere con i livelli di eversività dei repubblicani i quali adesso rincorrono una deriva impazzita molto pericolosa per la democrazia americana e mondiale. Vedi il comportamento nei confronti della commissione che indaga sui fatti del 6 gennaio o la ridistrettualizzazione dei collegi elettorali nel sud del paese o ancora l’attacco martellante alla legge sull’aborto (la cosiddetta Roe versus Wade che fu approvata nel 1973) in tutti gli stati repubblicani.

Mi rendo conto che capire queste dinamiche interne per giustificare le scelte di politica estera per gli europei è ostico e non è un caso che le spieghi cosi bene Fukuyama che negli Stati Uniti è nato, è cresciuto e ha studiato.

C’è inoltre un altro elemento che contribuisce alla debolezza dell’America specie dopo quattro anni di Trump il quale ha intaccato irrimediabilmente l’immagine internazionale degli Stati Uniti nel mondo. Un elemento che non aveva mai vacillato in precedenza: il sistema della cultura e dello spettacolo. Già indebolito negli ultimi 10 anni da una défaillance incredibile ancora prima di Trump ha poi subìto un crollo irreversibile sotto la sua presidenza e un colpo mortale con il Covid per ovvi motivi legati all’impossibilità della contiguità. Il cosiddetto soft power contribuiva infatti attraverso lo star system del cinema, della musica, della televisione assieme a quello della cultura in generale a tenere alta la reputazione del paese nel mondo. Le cose adesso sono cambiate con l’unica eccezione di certi settori del mondo televisivo che invece ha guadagnato spazio e potere spesso speculando sulla polarizzazione del paese come Foxnews. E allora che fare? Stare inerti a guardare o reagire? E come?

Anche perché alle prossime elezioni i democratici perderanno la maggioranza alla Camera e allora saranno dolori.

Cosi guardo proprio al potere delle immagini a quelle stesse sulle quali lavoro da anni e che non essendo stabili per natura, ma invece contraddittorie, proteiformi per cultura e per questo potenti, fanno il giro del mondo parlando lingue diverse. Pensiamo per un momento alle foto dell’11 settembre o a quelle dei profughi afgani. Non basta più una pietas impotente o il dispiacere profondo alimentato dalle nostre analisi intelligenti. Ritornano in mente le considerazioni di Susan Sontag (Davanti al dolore degli altri 2003) a proposito delle immagini di guerra che non hanno un solo significato e che segnano uno spartiacque tra coloro che alla guerra ci sono o ci sono stati dentro e hanno visto morire altri uomini e donne e gli altri, quelli che non erano a vederne gli orrori. E assegna alla fotografia il compito fondamentale di testimonianza, di presa di coscienza e di agency nei confronti del dolore degli altri.

Al potere che deriva dall’immediatezza delle immagini che irrompe nella coscienza di ognuno di noi è delegato il compito di una nuova agency. Ciò meritaspunti di riflessione e decisioni conseguenti. Intanto ci sono studiosi come Nicholas Mirzoeff, il creatore dei Visual Studies che si sono trasformati in “attivisti” prima accanto al movimento Occupying Wall Street e adesso a quello di Black Lives Matter. Certo, l’idea di un coinvolgimento individuale e collettivo nei movimenti politici sta guadagnando sempre più terreno tra i giovani, gli intellettuali e la classe media. Questo può essere incoraggiante anche se il paese appare così diviso che non ci autorizza a immaginare niente di buono.

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