Alberto Fraccacreta
Cucina in quarantena

Il pane di Caravaggio

Può essere un’ottima ricetta l’essere senza ricetta? Viene in mente la celeberrima “Cena in Emmaus” del Caravaggio: una sospensione perenne, con due volti che ”stanno per“ riconoscere Gesù. Per sempre

Sono giorni in cui il rapporto quotidiano con i fornelli rischia di diventare più intenso e pericoloso (di qui lo spasmodico bisogno di footing per evitare il fatting). Ricordo un corso di Letteratura italiana rinascimentale in cui si analizzava un voluminoso manuale di ricette. Forse quello di Cristoforo di Messisbugo, Banchetti compositioni di vivande et apparecchio generale. Mi hanno sempre affascinato il «caviale di storione cobice», la «minestra di pelle di capponi», le «frittelle con fiore di sambuco» o l’«anatra in salsa di prugne» (ricetta di Bartolomeo Scappi) con «prosciutto tagliato a pezzuoli, pepe e cannella, garofani, noci moscate e zucchero, cime di salvia e uva zibibbo e visciole secche», più per la varietà linguistica che per l’effettiva realizzazione. Non potrò mai dimenticare quando, in una ruvida locanda della Carinzia nei pressi del lago Weissenssee, ci servirono un panino con il prosciutto cotto, un medaglione di mozzarella fusa e… i mirtilli. Nascosti, per altro, come piccole mine inesplose, sotto l’increspatura rosa e lucida dell’insaccato.

Indimenticabili sono anche le inserzioni della cucina russa nella letteratura da Gogol’ a Čechov, i cui personaggi sono spesso impegnati a trafficare con (sempiterni) storioni adornati di capperi e olive o zuppa di sterletto con lasche e latte di pesce.

«Olive taggiasche in salamoia»: quante volte ho sentito questa poeticissima definizione dalla bocca di amici urbinati! Spesso prepariamo una spaghettata in compagnia e le «olive taggiasche in salamoia» ci accompagnano con la loro scanzonata autoreferenzialità.

Noi italiani siamo ai vertici indiscussi dell’arte culinaria. E, cherchez la femme, non si chiami in causa la nouvelle cuisine. In Provenza — dove Simone Martini miniò il frontespizio del Commento di Servio a Virgilio del Petrarca e Van Gogh, dall’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy, dipinse vigneti ombrosi e uliveti perlacei e la roteante notte stellata, dove mazzolini laminati e crespi di lavanda empiono l’aria — il piatto forte è il fegato d’oca (scodellato d’emblée con un colpo d’anca), una paiarda gelatinosa e ambrata, alla quale francamente (cugini, pardonnez-moi) preferisco una bella cotoletta alla milanese.

Certo è che, a prescindere dai gusti e dalle tradizioni, è bello che girino sul web molti consigli culinari con tanto di videoistruzioni, ai quali andrebbe aggiunta — credo — la non-ricetta. Siamo in quarantena e, anche, in Quaresima: i due termini sono collegati. Ogni tanto offrire il sacrificio della rinuncia aiuterebbe. Dire: «Tolgo qualcosa a me, affinché sia dato agli altri». È amore oblativo. Pure questo è cibo, che fa bene non soltanto, genericamente, all’anima ma soprattutto alla psicologia, all’interiorità o, se vogliamo, alla mentalità di ognuno di noi. Lo scrittore israeliano David Grossman, sulle pagine di Repubblica, ha sottolineato qualche giorno fa che, dopo il virus, «ci saranno nuove priorità». Forse si possono anticipare.

Può essere un’ottima ricetta l’essere senza ricetta? Mi viene in mente la Cena in Emmaus del Caravaggio, conservato alla Pinacoteca Brera, che ho visitato alla fine di gennaio. Una brocca di vino, il pane brunito, l’oste perplesso e in attesa, l’ostessa appena arrivata con una florida canestra di frutta. I due discepoli (soltanto di uno conosciamo il nome, Cleopa) che finalmente stanno per riconoscere il maestro, si stanno alzando in piedi con uno scatto nervoso. Sì, stanno per riconoscerlo. Sono sul punto di farlo. Da sempre. E continueranno. Non c’è dubbio, continueranno. E Gesù, il cui volto è illuminato da una luce antichissima e invitriata, ha lo sguardo abbassato, è concentrato. Vangelo alla mano (Lc 24: 13-35), egli ha appena benedetto e spezzato il pane e ora sta per sparire alla loro vista proprio mentre «si aprirono loro gli occhi». Fotografando quel preciso istante — l’istante del congedo —, però, Caravaggio sembra quasi voler costringere Gesù a rimanere alla nostra misera tavola. Tra briciole e chiazze. Non se ne andrà mai. Per favore, rimani con noi nella tua lapillare carità. Rimani alla mensa dei medici e degli operatori sanitari e degli ammalati. Di quelle bare sole. Di chi guarda circospetto.

Diciamo, Signore, devi rimanere perché si fa sera.
E il giorno di lapislazzulo già volge al declino.
Vogliamo che rimani.
Tu entri per rimanere con noi.

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Le immagini sono di Roberto Cavallini

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