A proposito della raccolta "Terra madre”
Ottava sassolese
Ritratto di Emilio Rentocchini, poeta che l'ormai raro idioma sassolese (tipico di una zona intermedia tra il modenese e il reggiano) per ricostruire la vita in endecasillabi
Quasi un anno fa usciva in volume la raccolta di tutte le ottave di Emilio Rentocchini (Sassuolo, 1949), uno dei più importanti poeti oggi. Con la pubblicazione di Lingua madre (Incontri Editrice, Sassuolo, pp. 296, euro 14), è finalmente possibile attraversare tutta la sua produzione in versi dal lontano Otèvi (Sassuolo, 1994, ormai da tempo esaurito e quasi introvabile) a Stanze di confine (Modena, 2014). Poeta autentico, Rentocchini ha preso la decisione, sicuramente in controtendenza, di utilizzare la forma metrica per eccellenza della nostra tradizione letteraria (ecco un poeta che ha ancora voglia di usare l’endecasillabo): l’ottava di Boiardo, Ariosto e Tasso. Una sorta di volontaria prigione, la definisce lui, che però gli ha rivelato aperture impensabili e inimmaginabili tanto da metterne in crisi il perfetto equilibrio formale. Una “forma schiusa”, come recita l’ultimo verso dell’ottava 218: sta léngua morta in fourma sciusa.
La lingua (quasi) morta, che viene a creare un attrito con il modello classico di contenimento, è il dialetto sassolese, ormai patrimonio di pochissimi e destinato a scomparire, come leggiamo nel componimento che apre il volume: “Na lengua ch’l’an cress ménga, ch’l’as scunsóma/in el cuseini vedvi, ai let di vec,/ bouna a ciamer soul quell ch’l’è dre ch’al sfóma/ dre da la lus, deinter l’arseint di spec/ in dove premaveira l’an profóma, /premaveira spieteda con i vec/ e al sô baioch ed léngua ch’an cress ménga, / ch’as scunsóma da lonedè a la dmenga” (Una lingua che non cresce mica, che si consuma/ nelle cucine vedove, ai letti dei vecchi,/ buona a nominare solo ciò che sta sfumando/ dietro la luce, nell’argento degli specchi/ dove primavera non profuma,/ primavera spietata con i vecchi/ e il loro baiocco di lingua che non cresce mica,/ che si consuma da lunedì a domenica).
Ma non è propriamente l’idioma vernacolare che si parla(va) nella zona intermedia tra il modenese e il reggiano, perché a Rentocchini non interessa tanto l’occasione sociologica quanto quella esistenziale: vuole un linguaggio che si faccia veicolo di senso e di verità. La deformazione linguistica (il dialetto risulta ibridato da imprevedibili neologismi, anglismi con originalità non solo lessicale, ma anche sintattica) rappresenta allora la fiducia che il poeta nutre ancora verso la funzione della poesia che lui può esercitare attraverso la sua soggettività.
Al contempo è parola evocativa, quasi da formula magica, da leggere velocemente come i vecchi che masticavano litanie in latino. Come una sorta di “mantra”: Abàsta trést, ma dòuls, savèir ch’a sòun/ propria un vèc rimadour in una lènga/ rincòursa adrê a la fòurma, a un mantra, un sòun/ bòun per mè stèss… (Abbastanza triste, ma dolce, sapere che sono/ proprio un vecchio rimaiolo in una lunga/ rincorsa alla forma come mantra, suono/ fine a me stesso… Ottava 248). Ed è anche e soprattutto la parlata, a tratti anche ispida e scabrosa, della famiglia, del mondo caldo degli affetti, che gli arriva dritta dall’infanzia– sono parole sue – come sbriciolata. Per poi divenire lingua spirituale, quando gli piove dall’alto “come una farina celeste”. Mentre l’italiano, qui, non ha tanto funzione di servizio quanto di complemento razionale e ineliminabile per portare alla luce e rendere intellegibile il suono materno, intrauterino. Motivo per cui le due versioni devono necessariamente coesistere nella stessa pagina.
L’ottava e il dialetto, dunque. L’alto e il basso. L’aulico e il quotidiano. “Un po’ – ci dice – come quando si cerca di accendere un fuoco sfregando due pietre. La cosa meravigliosa, anche se il fuoco non si accende, è che nella notte si vedono le scintille”.
Le stesse scintille, faléstri, pietose che fanno brillare dell’ultima luce il mezzo carburatore abbandonato giù per un pendio con l’erba che gli mangia il cuore (“Sò per na riva un mes carbouradorur/ ed na Suzuki, erba l’agh magna al cór…). Correlativo oggettivo della nostra transitorietà esistenziale (come il frigo mezzo vuoto, le macchie addormentate sul soffitto), è un corpo che sta venendo meno, una povera cosa dimenticata in un luogo non suo. Ma nella tensione conoscitiva, e quindi metafisica, si annida il valore di ogni vita capace di farsi simbolo: Véver e basta uguèl a trasparir/ e ander via vèirgin, sòul chi gh’la fa a fèr/ dla sô realtê un sìmbol al sa sintìr/d’esr esistî... (Vivere e basta equivale a trasparire/ e andarsene vergini, solo chi fa/ della sua realtà un simbolo sente/ di essere stato…).