L’elzeviro secco
Cafardo style
Piccolo prontuario di un modo di essere privo di qualsivoglia senso estetico, bellezza, eleganza e grazia. Ma a ogni popolo (e individuo) la sua cafarderia, dal texano con l’anellone al mignolo, a Gogol', ai Centurioni romani, all'uomo di Neanderthal...
Il cafard, dal francese “scarafaggio”, è l’umore malinconico, uno spiacevole senso di disagio. Cioran ne parla approfonditamente nei suoi saggi e persino dei quaderni; è un leitmotiv della sua prosa caustica. Il cafardo corrisponde invece più comunemente a quel tipo umano corredato di vistose intemperanze nell’essere e nel vestire, che provocano un certo nocumento in chi lo e le osservi. Lungi dal limitarsi al suolo nazionale, il cafardo ha caratura planetaria: pensate ai texani, professionisti e cultori della cafarderia ad ampio raggio. Anellone al mignolo che esecra la tozza mano, cappellaccio spavaldo alla gestore di una catena di saloon, pellicciotto da «voilà, colpo apoplettico per tutti gli animalisti». I loro scarponi a punta sono, inoltre, modelli inimitabili per chi aspira a un posto fisso nel settore.
A scanso di discriminazioni, è bene sottolineare che i cinesi conoscono approfonditamente quest’arte: palloni rossi al di fuori degli esercizi, negozi dallo spillo all’elefante. E, incredibile ma vero, per motivi diversi che non sto qui a elencare, anche spagnoli, russi e tedeschi. A ogni popolo la sua cafarderia. Basti considerare gli orridi calzini bianchi su mocassini a strappo, tipici dei connazionali di Nietzsche e di Otto Weinenger, che avrebbero invaso anche le isole Cook conciati in siffatta maniera. Mi piace immaginare che Nietzsche scrivesse sullo Übermensch con quegli affarini là; la prova empirica immediata dalla fallacia delle sue tesi bizzarre. Uno Übermensch in mocassini è immediatamente degradato a guscio d’uovo. E nel mondo ispanico? Le telenovelas dell’America Latina: esasperazione della cafarderia. Quanto ai russi, è sufficiente leggere una pagina de Le anime morte di Gogol’ per capire di quali mondi sconosciuti ci siamo privati.
Feuerbach diceva «l’uomo è ciò che mangia», d’accordo, ma «il cafardo è ciò che veste». Il cafardo non ha minimo senso estetico, è un omicida della bellezza, della grazia, dello stile. L’eleganza del cafardo è come la leggerezza del capodoglio: non esiste se non per mezzo di un evidente paradosso linguistico.
Per i fanatici delle mappe concettuali, si può asserire tuttavia, e non nascondo qui una certa invidia, che la cafarderia americana sia praticamente invincibile. A causa della stessa pervicacia che da sempre li contraddistingue, gli americani hanno il primato indiscusso. Peccato, l’Italia era sulla buona strada! Ma funziona come le Olimpiadi: loro sono di più… D’altra parte è anche una questione di cromosomi. I Padri Pellegrini erano di origine irlandese/scozzese: cafarderia indigena allo stato puro mescolata a un certo grado di pomposità latina, in un raro trionfo di sapori. In effetti la nostra cafarderia ha dal canto suo una caratteristica unica: è ben radicata. Secoli di garbo in brache di tela. I Romani erano sontuosi e di cattivo gusto. Scrivere una storia dell’arte romana è semplice, basta una rapida osservazione: prendete l’arte greca e incafarditela a più non posso. Se i Greci avevano già un’eleganza piena di pecche (l’Athena Parthenos, capolavoro di Fidia, era una statua colossale crisoelefantina con la centauromachia sui sandali), i Romani erano più rustici delle unghie dei piedi di Catone il Censore.
Per tornare alla contemporaneità, accessori fondamentali del cafardo a ogni latitudine sono automobili rombanti, abiti sobri à la Nembo Kid durante il carnevale di Rio, casse dello stereo discrete come il gambero pistola quando deve accalappiare la preda. Il cafardo non ha stile, si è detto, ma ha un timbro riconoscibilissimo. Ciò lo rende diverso, e dunque prezioso in una società oggettivante, monotona, tendente al grigiore delle somiglianze. Il cafardo diviene una risorsa dell’espressione umana: il differente, il non omologato, o forse l’omologato perfettamente che comunque dà qualcosa di suo. Le donne trovano machi alcuni cafardi e a ragione: fioccano i regali costosi a scapito delle carinerie, sostituite senza colpo ferire da un corteggiamento a prova di mammut, ma non siamo più all’epoca dei trovatori e del vassallaggio d’amore, per cui nisba.
Categorie storiche vicine ai cafardi, oltre che i centurioni de’ mamma Roma, sono i conquistadores coi loro funesti baffetti, l’Impero asburgico in toto e naturalmente gli immarcescibili lanzichenecchi. Da quello che posso arguire anche l’uomo di Neanderthal presentava delle particolarità ascrivibili all’universo cafardesco, nato probabilmente con l’uomo e i suoi derivati. Attenzione però, esistono anche animali cafardi: l’ippopotamo sopra tutti, rex cafardorum animalorum, l’asino col suo crestone e lo sguardo brillante, e i cani, quando non si dominano e sono colti da quell’odiosa festosità, per nulla paragonabile alla quieta economia del corpo di quei maestri di stile che sono i gatti.
Che non mi si accusi di essere un sicofante, ho conosciuto cafardi dal buon cuore: sinceramente innamorati, capaci di prestare soccorso in ogni evenienza, perché sommossi dalle lacrimae rerum. Questo per dire che trattare i tipi umani in maniera rigida, stereotipandoli, non giova a nessuno. Ciò che conta è il Singolo, come lo intendeva Kierkegaard. La responsabilità di ognuno serve più dei contenitori sociali entro cui siamo inseriti. Mi è capitato di essere cafardo (in alcune cose lo sono tuttora), capita a tutti prima poi. C’è del cafardo in ognuno di noi. Non mi ci sono trovato male. Meglio cafardo che cafard.