Erminia Pellecchia
Istantanee da una città-universo

Napoli senza Zazà

Roberto De Simone e Enzo Moscato dedicato due libri di cunti, invettive e ricordi a una città perduta che sembra ormai imbalsamata nel suo passato che non passa. Come la celebre "nuttata"...

«Dove sta Zazà?». Sono passati settantuno anni da quando Cutolo & Cioffi diedero vita alla canzone simbolo di quella che Roberto De Simone definisce «la scandalosa epopea del dopoguerra». Napoli come Zazà. Quel ritornello, amaramente sfottitorio, strimpellato dai «novemilanovecentonovantanove pianini scordati di tutta la città», è il grido accorato di una memoria “fumata”, rubata dalla peste contagiosa e letale dell’«ha da passà ‘a nuttata» che dal 1944 contamina le menti ancora oggi. «Siamo noi stessi morti durante un bombardamento senza accorgercene – lamenta il maestro indiscusso della cultura musicale partenopea – È un’oscillante ricerca dei nostri corpi senz’anima. Trovarsi o ritrovarsi, questo è il problema. A volte penso che persino nelle clausole dell’armistizio dell’8 settembre ci sia quella di archiviare il caso Zazà». E, a quella domanda sospesa da decenni, lui prova a dare una risposta col bellissimo, irriverente romanzo autobiografico Satyricon a Napoli ’44. «Fra Santa Chiara e San Gregorio Armeno» (Einaudi 2014, pagine 366, 16,50 euro). È la cronaca di un anno eccezionale, quello di una rinascita sperata ma mai avvenuta, visto dagli occhi di un Roberto poco più che bambino; un ritratto di Napoli, l’ultimo vero possibile, scritto come la partitura del doloroso melodramma di «una città imbevuta di volgarità, quella dei neo-arricchiti che hanno scippato il benessere esibendolo come forma di potere».

Satyricon a Napoli ’44 roberto De simoneÈ un affresco per frammenti, questo libro: più attuale di un discorso organico, una sorta di oratorio in cui si accampano ricordi-recitativi cantati, un’«armonia sperduta» rivisitata dalla consapevolezza contemporanea. Già, perché quella di De Simone è una rievocazione attuale in cui «leggiamo la nostra storia e la confrontiamo col presente per vedere le nostre macchie storiche». Senza retorica e folklore, ma attraverso lo sguardo di un osservatore acutissimo – un po’ Petronio, un po’ Fellini – che avvolge tutta la città, partendo dai vicoli, quelli dei Quartieri, ed entrando nelle abitazioni, nelle chiese, negli ospedali e nei bordelli di una Napoli dove, dopo la guerra, «non c’è rimasto nemmeno il tempo di pensare; i mesi si sono fatti polvere, polvere sono le case bombardate, polvere è il cibo liofilizzato che riempie i piatti, e i sogni pure sono polvere di stelle come canta per le strade un motivetto hollywoodiano». «Eravamo un popolo, ci avviavamo a diventare gente – dice l’autore di questa accorata e grottesca ballata di amarcord e suggestioni – un aggregato di anime perse senza più fede, o meglio come una fede sgargiante, esibita, senza fondamento».

Proprio come la devozione, emergente in quegli anni e strombazzata dai media, verso «il bel frate con la barba nera» che risponde al nome di Pio e che, in sorprendente, velocissima ascesa, usurpa la scena, con gli spettacolari prodigi, alle icone antiche della religiosità popolare: i santi Gennaro, Giovanni, Sebastiano, Patrizia, Maria Francesca.

roberto de simoneNovembre 1944, note e canzoni, facce e vie. Il dodicenne Roberto al primo anno della media nell’istituto “Pasquale Scura” alla Pignasecca, grande passione per la musica, in particolare il pianoforte, avvia la sua formazione tra rovine belliche – Santa Chiara come Troia e Cartagine, secoli di storia polverizzati nel fuoco di un’Hiroshima vissuta in anticipo di due anni dai napoletani – puttane, medium e patrioti, femminielli, scultori di pastori dalla perfezione ultraterrena e voci divine allevate nei chiostri, posteggiatori e black sceneggiate, palazzi aristocratici e cantine, lotto, mercato nero e usura, miseria ed esorcismi, monache umanissimamente spergiure e miracoli con profilattici di esultanza conditi da brodo di polipo con taralli, amicizie fraterne e segrete esperienze sessuali. Lili Marleen, i tedeschi e i camerati, la crudeltà gratuita; l’atomica Gilda, gli americani, «così alti da non vedere quello che accadde sotto i loro piedi»; Munasterio ‘e Santa Chiara e Tammurriata nera, sciuscià e segnorine, zampogne e cornamuse, victory soldier che ruminano chewing-gum al ritmo di fik fik fik, maschi e femmine indifferentemente, duecento lire a botta: come in un musical si diffondono melodie, rapsodie, jazz, blues e rap ancestrali dove il silenzio, tra una nota e l’altra, risuona come la morte. È una sinfonia anarchica composta in uno slang anglonapoletano dove storie e storia si confondono, dove il risentimento si fa casuale e collettiva rivolta, senza capi, né progetto; dove il sogno di libertà si deturpa nell’immagine del bacio sulla bocca di Lucky Luciano e Achille Lauro, la fame patita poi soddisfatta nei fortini della camorra e della falsa democrazia, delitti senza castighi, la straordinarietà delle guerra come scusa e la nascita di un malcostume che ancora impera. Angeli e demoni, nel racconto di un bambino adulto in bilico tra inferno e paradiso che vuol ricordarci che la salvezza è nell’identità culturale da ritrovare e valorizzare: «In tal senso il presepe è la memoria di un sogno, i novanta numeri della tombola sono il sogno di una memoria, i versi di un canto sono i cocci rotti in attesa di rimemorizzarsi di nuovo con la voce di chi li canti».

Tempo che fu di Scioscia di Enzo MoscatoIl tempo è una serpe di cui non vediamo mai né la testa né la coda. Ed è il Tempo che fu di Scioscia (Tullio Pironti editore, 2014, pagine 94, euro 12) l’altra straordinaria cantata alla “memoria spergiura” delle Quattro Giornate di Napoli e dei suoi eroi-non eroi. La storia raccontata come un cunto da Enzo Moscato, un fantasticabile che va nello strato più profondo e più celato della pelle di quei famosi giorni e in cui non ci sono buoni e cattivi, martiri e bruti, vigliacchi ed eroi, né c’è la celebrazione e la retorica di cronache arcinote che, negli anni, sono state avvolte dall’aura dell’epica. È piuttosto, lo spiega lo stesso autore nella prefazione, la voglia «di attraversarle (io che non le ho vissute ma solo sentite riecheggiare dalle labbra di quelli più vecchi di me e che magari le avevano anche viste di persona) con la pura fantasia, l’immaginazione». La Storia si modula in frammenti di storia – sì, con la “s” minuscola – attraverso undici novelle in bianco e nero, piccole gemme di scrittura, dove protagoniste sono persone normali, loro malgrado trovatesi ad inciampare nella rivoluzione degli straccioni di quel settembre del 1943. È una fiaba popolare che sfogliamo con piacere, conoscendo e amando le figure surreali che si materializzano pagina dopo pagina, capitolo per capitolo. Ecco Palla ‘e Stocco da Marano, alias suor Gesummina, la grassa monaca vivandiera del convento di Santa Maria Mercede all’Arenaccia che vuol punire i crucchi con l’olio di ricino nella minestra; ecco Mata Hari «zoccola e spia», la puttana dell’oscena casba gorico-africana di via Magnocavallo ‘ncoppa Toledo, bruciata viva da «urlanti spettri, fuori di sé-nno», perché «s’ ‘a ntennèva cu ‘o Nemico». Tra la «schiera di ancor vivi, nel gran mare dei già morti», nel rifugio sotto le antiche mura della chiesa di piazzetta San Sepolcro, si consuma la delicata, commovente vicenda di Carraturo, morto abbracciato al soldato straniero che lo inseguiva o fuggiva, poco importa, in quell’infinito, «disfracellato» budello: giovane come lui, come lui la paura negli occhi e la voce tremula, la bocca sulla propria bocca sporca di terreno nell’ultimo alito di vita.

napoli 1944Altro affresco dolente, l’esecuzione-vendetta di un soldatino con la faccia di pastore di presepio, ma è un errore, quel fragile militare dai capelli giallissimi rasati e gli occhi di un azzurro trasparente è invece Katya la svedese, una delle tante signorine del bordello di piazzetta Mondragone trucidata dalla folla impazzita e condannata con «cazzimmosa ipocrisia» per volontà del popolo sovrano. E c’è la vecchia zingara cieca, i suoi «cannarini» che si fanno canto di lotta «pure dietro le sbarre», pure mentre la fucilano, ci sono i guaglioni del Correzionario giovanile comunale, Rituccia la mandolinista, Tizzano, «nu zerbinotto sempre alliccato», imboscato dall’età della leva e acciuffato all’ultimo minuto, quando si sentiva ormai al sicuro. C’è la zitella colta e di buona famiglia che spia golosa i muscolosi e biondi ariani nella grazia naturale dell’innocente impudicizia espositiva delle loro parti intime; e infine Fulmine, «segaiolo senza scuorno» in gara con un colonnello «d’’a Wehrmacht» a chi fa prima «di due uccelli carezzati a mano fina» per salvare settecento disgraziati sfollati in un casermone che i tedeschi volevano far saltare in aria. Racconti fascinosi, onirici, grotteschi e a volte anche scabrosi che il drammaturgo poeta e filosofo inanella nella sua lingua arcaica che assume le sfumature della contemporaneità. La morale è attualissima, l’ieri di ombre e luci che si reitera in un oggi di sopore delle coscienze.

Moscato lancia il suo grido, lo stesso che ricorre nel testo dello spettacolo Napoli ‘43. È un appello alla «liberazione», al ritorno al tempo di Sciuscià, il mitico personaggio che risorge ogni volta che la sua città è ferita. Drammatico. Sconvolgente. «Adesso ci vorrebbero i tedeschi. Un’altra volta». E, in appendice del libro, pubblica, facendola sua, la lettera di Nino De Luca, uno dei tantissimi resistenti all’epoca delle Quattro Giornate: «Settant’anni fa avemmo ragione a combatterli e scacciarli. Erano brutali, prepotenti, avidi, feroci. Ma oggi in un paese e in un popolo totalmente istupiditi, indifferenti, egoisti, rassegnati, dovremmo fare il voto a qualche santo che risorgano e ritornino i tedeschi a molestarci, offenderci, ferirci mortalmente, come prima e più di prima. Così almeno reagiremmo da cristiani come facemmo allora».

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