Pier Mario Fasanotti
Padri contro figli/1

Mamma, ho perso l’infanzia

Figli adulti e genitori infantili. Poi la rivoluzione informatica e la società dei consumi... Marina D'Amato descrive la mutazione in atto nel “mondo piccolo”, ne analizza le cause e spiega i rischi della relazione paritaria col “mondo grande”

Se qualche tempo fa lo dicevamo sottovoce o lo pensavamo soltanto, ora l’esternazione sta diventando palese e sempre più diffusa: il bambino è il tiranno della famiglia. E, al pari della figura politica, noi siamo spiazzati, abbiamo dubbi su come gestirlo, abbiamo quotidianamente la prova di una comunicazione sempre più difficile. Fonte di ansia, di sensi di colpa, di incertezze. Già: ma di quale bambino stiamo parlando? Da decenni a questa parte il soggetto in questione non somiglia affatto all’immagine che da millenni abbiamo di lui. Con questo non vogliamo affatto sostenere che non esistono genitori felici. Semmai registriamo in loro, anche in loro, un certo disorientamento, o comunque un sensibile calo di naturalezza comportamentale. Marina D’Amato, docente di Sociologia a Roma, ha pubblicato un saggio il cui titolo è uno shock: Ci siamo persi i bambini – Perché l’infanzia scompare, edito da Laterza (167 pagine, 12 euro). Nella quarta di copertina il sunto della tesi della D’Amato suona come una scudisciata: i bambini «fanno le stesse cose degli adulti, si vestono come loro, guardano la tv, giocano con i videogiochi, navigano su internet, praticano gli stessi sport, parlano con un uguale numero di vocaboli, usano gli stessi gesti, hanno pochi giocattoli, ma moltissimi gadget. Sono i bambini dei nostri giorni, i bambini adulti, figli di bambini adulti».

Ecco l’allarme: i genitori si stanno infantilizzando. Ed ecco la domanda inquietante: dove è andata a finire l’infanzia? Questo mondo diverso ha cominciato a evidenziarsi nelle indagini psicologiche e sociali degli anni Sessanta del secolo scorso, «quando è stato accordato all’infanzia uno statuto a se stante, in base al quale i bambini devono essere considerati nella loro individualità, rispettati in quanto esseri unici e soggetti di diritti». Tutto giusto, ma la strada conduce lontano, forse troppo lontano. Anche la letteratura ha preso atto di una situazione infantile mutata, dopo aver raffigurato per secoli e secoli l’infanzia «come un mondo rimpicciolito rispetto a quello dei grandi di cui condivide le dinamiche». Poi ci sono i media, in primis la tv, che «rinviano a una rappresentazione dell’infanzia che gravita intorno a sentimenti di regressione emotiva o a stati d’animo di incertezza e paura». La società dei consumi guarda a loro con interesse cinico.

copertinaConviene passare in rassegna le varie concezioni storiche dell’infanzia. Nel mondo greco antico l’infanzia «è un tempo senza severi margini cronologici», che comprende un lungo tratto dell’esistenza umana, mentre nella Roma d’un tempo i bambini costituivano un mondo a parte, «separato dal mondo adulto che detiene le prassi e i segreti della sessualità». Con la caduta dell’Impero l’equilibrio si rompe. Con il cristianesimo guadagna terreno la tesi secondo cui quando il bambino è in grado di controllare il linguaggio e (secondo la Chiesa) di distinguere tra bene e male, «è da considerarsi adulto: a sette anni si può già guadagnare l’inferno!». Con la caduta di Costantinopoli e l’uscita dal periodo “buio” con il conseguente allargamento del benessere, tra maturità e infanzia c’è il solco del sapere: «Saper leggere e scrivere è la chiave di accesso alla comunità dei grandi». Nascono le scuole, parimenti al fatto che con la riscoperta della cultura ellenistica si evidenzia «la centralità del bambino».

È alla fine dell’Ottocento e ai primi del Novecento che si comincia a parlare di “bambino re”. Ma è poco dopo la metà del ‘900 che va in crisi «la tipologia di famiglia puerocentrica». Nella cosiddetta società post-moderna domina «il puerocentrismo narcisistico». L’autrice del saggio scrive che, a causa anche di tv e di internet, oggi la divisione tra “mondo piccolo” e “mondo grande” si annulla. Bambini e adulti diventano indistintamente “audience”. Si spazza via l’infanzia proprio come accadeva prima della scuola, e «si impara a comprendere attraverso le emozioni e non tramite la ragione… l’infanzia s’insabbia come fatto culturale e rimane come dato di natura». Ne risente, e molto, l’immaginario fantastico. Sostiene la D’Amato: «Il bambino contemporaneo, “soggetto di diritti”, diviene così “oggetto di pre-occupazione” degli adulti a cui sfugge precocemente di mano perché non ne condividono il mondo immaginario, non conoscono i nuovi eroi che lo popolano, non si adattano ai ritmi veloci dei videogiochi. Per questo finiscono per aver paura».

Al genitore spetta quindi non tanto il compito di educare, quanto quello di «attirare il bambino a sé, compiacendolo in ogni suo bisogno, spesso iperstimolandolo, complice in questo la società dei consumi, che ovviamente è gestita dagli adulti». Il guaio è che il bambino che ha necessità di guardare al genitore come persona responsabile, si trova a relazionarsi con un adulto ridicolmente e falsamente “paritario”. Chi insegna ancora i doveri oltre che i diritti fa sì che il bambino «diventerà un adulto capace di staccarsi dalla famiglia». Permane comunque, a causa della rivoluzione informatica, il rischio che aumentino i bambini solitari. Non è un caso, statistiche alla mano, che diminuisca sensibilmente il tempo trascorso “assieme”. A meno che il papà o la mamma non diventino competitor nell’universo dei videogames.

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