Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Kiefer e l’innominabile

Il film documentario di Wim Wender su Anselm Kiefer è davvero un capolavoro: un ritratto lieve e grave al tempo stesso dell'artista che ha immerso la sua creatività nel baratro del Novecento

Le macerie sono macerie, in ogni tempo e in ogni luogo. Le macerie di Mariupol e di Gaza non sono solo le macerie del nostro presente, sono le stesse macerie di Berlino alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Ho pensato a questo vedendo il documentario, ma direi piuttosto il magnifico film, Anselm che Wim Wenders ha dedicato ad Anselm Kiefer, pittore tedesco fra i grandissimi del XX e XXI secolo, scultore visionario creatore di opere gigantesche e labirintiche, narratore di una storia scomoda rimossa da tutti e che invece lui è qui a ricordarci, la storia delle nostre macerie passate e presenti. Le vite di Kiefer e Wenders, entrambi nati in Germania nel 1945, non potevano che incontrarsi e l’incrocio avvenne trentadue anni fa in un ristorante di Berlino, quando scoprirono ciò che li rendeva fratelli: Wenders avrebbe voluto fare il pittore, Kiefer sognava di fare cinema.

La pellicola di 93 minuti è girata in 3D e anche grazie a questa tecnica di ripresa lo spettatore si immerge in un viaggio affascinante e tutt’altro che scontato: nessuna intervista, nessuna retorica, un ritratto tutto per sottrazione, l’artista parla pochissimo, prende per mano lo spettatore, lo guida dentro la fisicità della sua arte, gli mostra il mondo come lo vedono i suoi occhi. Così lo guardiamo mentre dipinge e impasta e brucia tele e colori, innalza torri precarie come le macerie delle città bombardate, cammina nella foresta tra abiti bianchi senza spose («siamo le dimenticate, le senza nome, ma noi non dimentichiamo» sussurrano le voci), abiti pietrificati come gli aerei della sua mostra a Chicago che ne fece il più grande artista del nostro tempo.

Lo spazio in cui agisce Kiefer è immenso, è grande quanto la terra, non conosce i limiti delle gallerie e delle grandi manifestazioni come la Biennale, anche se è proprio in quegli spazi che è stato riconosciuto il suo genio. Un genio umile che ci racconta con semplicità cosa succede: «Quando il caos è delimitato da un rettangolo, diventa un dipinto», e queste parole avrebbe potuto dirle anche Pollock oppure il Tintoretto dalle fulminee pennellate che lui ammira estasiato in una Venezia di sogno.

Non è solo l’arte a decretarlo immenso, è il coraggio che ci mette nel farla. Per anni Kiefer è stato accompagnato dalle polemiche della critica per ciò che veniva interpretato come provocazione immotivata ed era invece la consapevolezza di voler costringere il mondo a fare i conti con l’innominabile. «Le mie foto in luoghi famosi mentre indosso la divisa della Wehrmacht di mio padre e mentre faccio il saluto nazista, non erano una provocazione fine a se stessa. Mi chiedo cosa sarei diventato nel 1930 o nel 1939, una domanda che dovremmo farci tutti. Io sono stato fortunato, sono nato nel 1945».

Ad accompagnarlo in questo viaggio c’è un bambino che gli assomiglia moltissimo, è Anselm negli anni ’50, all’inizio della vita, all’inizio di tutto, perché “l’infanzia è una stanza vuota come l’inizio del mondo”. Nell’ultima scena Anselm prende sulle spalle il bambino che è stato e solo nei titoli di coda si scopre il motivo della somiglianza, è suo nipote Daniel Kiefer.

«Cade solamente chi ha le ali», dice l’artista di fronte alle sue gigantesche sculture con ali spiegate. Viene da pensare che, come l’angelo di Bruno Ganz ne Il cielo sopra Berlino, anche Kiefer e Wenders abbiano rinunciato alle ali e abbiano deciso di cadere sulla terra per condividere con noi la loro anima.

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