Raoul Precht
Periscopio (globale)

Hoffmann e il fantastico

Ritratto, a duecento anni dalla morte, di E.T.A. Hoffmann, scrittore, musicista, pittore e giurista tedesco che per primo ha posto, in letteratura, la questione della crisi delle identità individuali. Un tema ancora oggi drammaticamente attuale

Due settimane fa abbiamo parlato di Boris Pahor, scrittore morto a 108 anni; oggi trattiamo di uno scrittore che ha invece lasciato questo mondo precocemente, ad appena quarantasei anni, ma che in un lasso di tempo limitato è riuscito a vivere, oltre a quella personale e biografica, almeno quattro esistenze professionali: è stato infatti magistrato, pittore, musicista e sopra ogni altra cosa scrittore. Parlo di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, l’anima del romanticismo tedesco, lo scrittore che forse più di ogni altro lo incarna e che, con la sua opera davvero fluviale – benché composta in un numero limitatissimo di anni, appena tredici –, rappresenta anche il punto di partenza (o almeno uno dei punti di partenza) del genere fantastico.

La doppia occasione di parlare di lui e della sua portentosa immaginazione ce la offre anzitutto il bicentenario della morte, avvenuta a Berlino il 25 giugno del 1822, e poi l’uscita del volume Automi, bambole e fantasmi, in cui sono riuniti alcuni tra i suoi racconti più importanti e famosi. Il libro rientra nella meritoria iniziativa dell’editore L’orma di dedicare a Hoffmann, nell’arco di una decina d’anni, un’intera collana, all’interno della quale sono già usciti i due volumi dei Fratelli di Serapione, Il gatto Murr, Gli elisir del diavolo, i Notturni e le Fiabe. Il libro appena pubblicato concentra, per il lettore meno incline a uno studio approfondito e desideroso di un’antologia, alcuni fra i testi più significativi e contiene fra l’altro Der Sandmann (L’uomo della sabbia), considerato una delle basi per gli studi su inconscio e paranoia di Freud, che sarà poi ripreso da Jacques Offenbach nell’opera I racconti di Hoffmann. Lo stesso vale per Rat Krespel (Il consigliere Krespel), storia di un singolare giurista appassionato di violini pregiati, che smonta per studiarne la struttura e ricavarne la voce della moglie morta, una cantante, e del suo complesso rapporto con la figlia, cui ha invece tentato di proibire il canto. Del volume fanno parte anche Die Automate (Gli automi), in cui Hoffmann anticipa il nostro disagio e la nostra incomprensione nei confronti delle innovazioni tecniche, la favola Nuβknacker und Mausekönig (Schiaccianoci e il re dei topi), che fra l’altro ispirò Čajkovskij per la composizione del suo famoso balletto, e Die Bergwerke zu Falun (Le miniere di Falun), una storia di fantasmi che sarà ripresa da Hofmannsthal nel suo omonimo dramma.

Nel caso di Hoffmann le traversie biografiche non possono essere ignorate. Nato a Königsberg (l’attuale Kaliningrad, all’epoca città di Hamann e Kant) nel gennaio 1776, ultimo di tre figli, in seguito alla quasi immediata separazione dei genitori Ernst Theodor Wilhelm (quest’ultimo nome lo scambierà con quello di Amadeus, in omaggio a Mozart, solo al momento di tentare la carriera di musicista) verrà cresciuto dalla madre, fragile di nervi, che muore presto, e poi dallo zio, un magistrato che il futuro scrittore considera cupo, asfissiante e odioso e la cui personalità ritornerà a più riprese nelle sue opere. Lo zio Otto Wilhelm, ovvero O.W. come lo chiama Hoffmann (abbreviazione che sta anche per oh weh, espressione traducibile press’a poco con il nostro “oh mio Dio” o “santa pace”), avrà però almeno il merito di iniziarlo alla musica, che amava molto, facendo prendere al ragazzo lezioni di piano e contrappunto. Al contempo, al momento dell’ingresso all’università, lo indirizza verso studi di diritto, nell’ambito dei quali il Nostro frequenterà (ma senza esserne troppo impressionato) anche le lezioni di Kant. Conseguita la laurea, Hoffmann segue dapprima l’attività di un suo lontano parente, consigliere reale e notaio – di questo primo lavoro si trova traccia nel suggestivo racconto gotico Das Majorat (Il maggiorasco) –, poi sarà uditore a Glogau, in Slesia, presso un altro membro della famiglia allargata, dove viene esiliato anche a causa dello scandalo pubblico provocato dalla sua relazione con una donna sposata. Nel frattempo, porta avanti anche l’attività di pittore e decoratore, nel 1798 si fidanza con una cugina e appena possibile si trasferisce a Berlino. Qui entra finalmente in contatto con uno stimolante ambiente artistico e letterario, legge con passione Goethe, Schiller, Jean Paul e Rousseau, continua a disegnare i suoi schizzi e ritratti, comprese caricature satiriche e urticanti, e, stregato dalle opere di Salieri e soprattutto dal Don Giovanni mozartiano, comincia a comporre con sfrenato accanimento lavori di gusto post-mozartiano, come Die Maske, che saranno pervicacemente rifiutate dagli intendenti dei vari teatri d’opera.

Trasferitosi a Poznan nel 1800, dove fra l’altro comincia la lunga consuetudine con l’alcool, rompe con notevole scandalo della famiglia il fidanzamento con la cugina, organizza uno scherzo carnevalesco ai danni dei notabili locali, in cui sfrutta abilmente le sue capacità di disegnatore e caricaturista, e viene infine punito con il trasferimento a Plock, una cittadina di appena tremila abitanti. Nel frattempo (luglio 1802) si è sposato con la figlia di un funzionario polacco, e, dopo qualche peripezia, nel 1804 riesce a farsi trasferire a Varsavia. Qui ritrova parte dell’ambiente berlinese e scopre con un pizzico di ritardo la nuova letteratura romantica, componendo, accanto a una missa solemnis, una sinfonia e delle cantate, anche un’opera su testi di Clemens Brentano e affrescando, visto che c’è, un palazzo. Siccome ormai a Varsavia si annoia, e per di più la città viene occupata dai francesi, riparte per Berlino, dove però non gli riesce il progetto di rientrare nei ranghi della magistratura.

Nel 1808 approda così a Bamberga, dopo aver risposto a un annuncio su un giornale per un posto di direttore musicale. Al teatro cittadino sarà non solo questo, ma altresì compositore, direttore d’orchestra, librettista, regista e scenografo, riuscendo a far rappresentare in campo operistico i capolavori di Mozart e Beethoven e in quello teatrale opere di Kleist, Calderón e Shakespeare, oltre che del nostro Carlo Gozzi, apprezzatissimo in quel periodo. Un’altra relazione sentimentale scandalosa, stavolta con una tredicenne cui dava lezioni di canto, avrà un esito prevedibilmente negativo, spingendolo a lasciare anche questa città.

Ottenuto un posto presso il Ministero della giustizia grazie alla definitiva vittoria della Prussia sulla Francia napoleonica, nel 1814 Hoffmann si ritrova di nuovo a Berlino, dove continua e intensifica l’attività letteraria. Quell’anno e il seguente pubblica in quattro volumi i Phantasiestücke in Callots Manier (Racconti fantastici alla maniera di Callot), di cui fa parte uno dei suoi capolavori, Der goldene Topf (Il vaso d’oro), favola che si sviluppa attraverso vari episodi di magia; tra il 1815 e il 1816 i due volumi che comporranno il suo romanzo più ambizioso (anche se forse non il più riuscito), Die Elixiere des Teufels (Gli elisir del diavolo), ispirato al Monaco di Lewis. Sempre nel 1816, oltre all’uscita dei Nachtstücke (Notturni), di cui fa parte il già menzionato L’uomo della sabbia, al Teatro nazionale dell’Opera va in scena il melodramma Undine, su libretto di Friedrich de la Motte Fouqué ispirato a un suo racconto. (Per via di un incendio le repliche saranno solo otto, ma almeno si parla finalmente di lui anche come musicista.) Lo stesso de la Motte Fouqué, oltre a Chamisso e Brentano, fa parte della cerchia ristretta dei più o meno scapestrati amici.

La raccolta successiva, Die Serapionsbrüder (I fratelli di Serapione), del 1818, è seguita dalla fiaba Klein Zaches genannt Zinnober (Il piccolo Zaccheo detto Cinabro), che è anche una satira politica in cui Hoffmann rivendica l’importanza della fantasia contro ogni tentativo illuministico e autoritario di abolirla, e da Seltsame Leiden eines Theater-Direktors (Le curiose pene di un capocomico), in cui Hoffmann milita a favore dell’immedesimazione a teatro, con una piccola sorpresa finale, visto che la compagnia teatrale ideale risulta essere un insieme di marionette. Del 1819 è Lebensansichten des Katers Murr (Il gatto Murr) e del 1820 Prinzessin Brambilla (Principessa Brambilla), ambientata durante il carnevale romano. Famoso il giudizio di Heine, secondo il quale chi con questo racconto non perde la ragione, semplicemente non possiede alcuna ragione da perdere. Die Doppeltgänger (I sosia) è del 1821, così come Meister Floh (Mastro Pulce), che sarà accompagnato da forti dissidi con la censura, anche perché Hoffmann vi racconta in tono satirico un recente processo alle intenzioni da parte della magistratura prussiana. Come giurista, Hoffmann non riesce proprio a trovare posto nell’atmosfera da caccia alle streghe ormai prevalente, né ad accettare gli ostacoli posti alla libertà d’espressione dalla restaurazione politica di Metternich. Intanto si aggravano rapidamente anche le sue condizioni di salute, e nel 1822, prima che possano essere avviati provvedimenti disciplinari nei suoi confronti, muore, non si sa esattamente se per una tabe dorsale, grave manifestazione dell’infezione da sifilide, o a seguito della sindrome laterale amiotrofica che avrebbe portato a una progressiva paralisi e al soffocamento.

Anche volendo ignorare la produzione musicale per concentrarci solo sulla pagina scritta, non abbiamo lo spazio per analizzare neanche una piccola parte di quest’opera davvero sterminata. Un paio di commenti minimi vanno però fatti: se per esempio si prende il racconto I sosia, vi troviamo già sviluppati temi che ritorneranno in seguito in tutta la letteratura mondiale, da Hawthorne a Poe, da Gogol’ a Maupassant, da Henry James a Conrad, da Kafka a Borges, e cioè la crisi identitaria, il magnetismo e il sonnambulismo, l’isteria, gli scambi di persona e le agnizioni, la telepatia, la disgregazione dell’Io, in poche parole gran parte di ciò che concorre a formare la categoria (che Hoffmann non ha peraltro mai teorizzato esplicitamente) del fantastico. Si veda a questo proposito anche l’antologia Io e l’altro. Racconti fantastici sul Doppio, a cura di Guido Davico Bonino (Einaudi 2004), che non a caso pone il racconto di Hoffmann proprio all’inizio, quale capostipite (benché a sua volta influenzato dal Peter Schlemihl di Chamisso) di tutta una tradizione letteraria occidentale dell’Otto e Novecento legata al Doppio e a quello che Freud chiamava “unheimlich” (ovvero il perturbante o letteralmente lo “spaesante”). Doppio che peraltro nella narrativa di Hoffmann ritorna a più riprese, come per esempio ne Gli elisir del diavolo o attraverso la creazione, a mo’ di sdoppiamento dell’autore, del musicista Kreisler tanto nei racconti del ciclo Kreisleriana (cui s’ispirerà Robert Schumann) quanto in altre opere, dove il personaggio, modernissimo, è un musicista geniale ma incapace di comporre senza il concorso di quelli che oggi chiameremmo paradisi artificiali (o almeno, come il suo creatore, di una buona dose d’alcool). Solitario e misantropo, Kreisler deve intrattenere con la sua musica un pubblico svagato e superficiale contro cui combatte a colpi di Variazioni Goldberg e altri brani musicali che quello stesso pubblico non è minimamente in grado di apprezzare. L’unico con cui s’intende è il domestico Gottlieb, che esorta ironicamente a gettar via il grembiule tipico della servitù. Ritorna prepotentemente alla ribalta, Kreisler, anche nel Gatto Murr: Hoffmann immagina – in un romanzo che si può solo definire sperimentale – che il gatto abbia sottratto il diario al suo padrone, Kreisler, appunto, e l’abbia fatto a pezzi, sicché ora esso è ancora leggibile, ma solo per frammenti e intrecciato alle riflessioni del gatto stesso.

Quanto alla crisi dell’identità individuale, difficile immaginarne una raffigurazione più evidente ed emotivamente destabilizzante dell’amore per la marionetta che per il protagonista de L’uomo della sabbia soppianta la fidanzata in carne e ossa. Siamo dinanzi a un orizzonte antilluministico, di ribellione nei confronti di tutte le sistematizzazioni, a volte pedanti, del Settecento, di creazione di temi e motivi nuovi, ispirati all’irrompere dell’irrazionale anche nelle arti visive e nella musica, in un’interdisciplinarità di cui Hoffmann è stato uno dei campioni e anzi, fin dai Racconti fantastici, ha fatto una bandiera. Non va poi sottovalutato il fascino esercitato su di lui, come anche su Tieck, dall’estetica barocca, dove contrasto, eterogeneità e libera trasfigurazione fantastica primeggiano. Ben lungi dal considerarla, come molti autori e filosofi coevi, di cattivo gusto, Hoffmann se ne appropria, puntando alla rottura delle regole classiche, all’instabilità, a un umorismo sconfinante nel grottesco, al capriccio che ne informa sempre le strategie narrative quale che sia la forma (racconto, novella, romanzo) di volta in volta prescelta.

Se poi si cercano accenti più sociali o politici, dove la libertà individuale è fatta schiava e impedita dall’assolutismo paternalistico e dallo scorrere delle generazioni con le loro immutabili e asfittiche tradizioni, basta rileggersi Il maggiorasco, dove Hoffmann alterna magistralmente tragico e grottesco. Ma non è tutto. Progressi e ambizioni della medicina e della psichiatria dell’epoca sono altrettanto presenti nell’opera di un autore che frequentava attivamente membri della comunità scientifica e si avvaleva delle loro scoperte per illuminare le zone per così dire notturne della mente, dando pari importanza alla realtà immaginata e a quella effettiva e mirando anzi spesso a confonderle. Se in taluni casi può sembrare che ci siano, anche sul piano tematico, concessioni a un certo gusto dell’epoca (agnizioni improbabili, scherzi di un destino prepotente e irresistibile, comparsa di elementi diabolici, ricorso all’occultismo, profusione di spettri e apparizioni, dialoghi a effetto), il poliedrico Hoffmann non dimentica di lasciare spazio anche alla satira sociale e al grottesco, che gli consentono di non indulgere mai al filisteismo allora imperante e di diventare un osservatore acuto e talora spietato della società che lo circonda. Per aver messo alla berlina tutta l’impalcatura perbenistica su cui si fondava il regime di Metternich, sarà infatti oggetto, proprio negli ultimi, drammatici mesi di vita, delle attenzioni un po’ esagerate del Ministero degli interni prussiano – accolte, probabilmente, con una risata dagli inferi.

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